Ruolo extra scheletrico della vitamina D. Uno sguardo sulle patologie metaboliche e cardiovascolari

Il ruolo e gli effetti extra scheletrici della vitamina D sono noti ormai da almeno un decennio. Nel 2023 è uscita un’interessante revisione relativa alla relazione fra questa sostanza e le basi molecolari delle patologie metaboliche e cardiovascolari. In particolare, il lavoro, peraltro a firma di ricercatori italiani, raccoglie dati e osservazioni provenienti dai numerosi studi epidemiologici e osservazionali relativi al rapporto fra vitamina D e citochine pro- e anti- infiammatorie che influenzano l’azione dell’insulina, il metabolismo lipidico e le funzioni del tessuto adiposo .
Eccone una sintesi ragionata, con i link alla bibliografia più importante e alcuni approfondimenti.

Vitamina D

  1. La vit. D è un pro-ormone liposolubile sintetizzato attraverso un fenomeno di fotolisi del precursore 7-deidrocolesterolo indotta dai raggi UV assimilabile dagli alimenti che ne sono ricchi [pesci grassi (25 microg/100 g), tuorlo dell’uovo, olio di fegato di merluzzo (210 microg/100g), alimenti fortificati]. Quando vi è un’adeguata esposizione alla luce solare, l’organismo è in grado di sintetizzare la vit. D per coprire i suoi fabbisogni. Se non si ha l’occasione o l’abitudine di esporsi regolarmente al sole, è necessario acquisire vit. D dagli alimenti.

    Una volta acquisita o prodotta, la vit. D deve subire due reazioni di idrossilazione, la prima delle quali avviene nel fegato a cui arriva attraverso il circolo sanguigno, legata a una proteina di trasporto (vit D binding protein, DBP). Da questa prima idrossilazione deriva la 25-idrossivitamina D (25-OH-D) che, trasportata da DBP ai tubuli renali, subisce la seconda idrossilazione.Ne deriva 1,25 – diidrossivitamina D (1,25-(OH)2- D), cioè la forma attiva della vit. D.

Effetti scheletrici: agendo in sinergia con l’ormone paratiroideo (PTH), è responsabile della regolazione della calcemia, promuovendo il riassorbimento intestinale di calcio e contribuendo così a una mineralizzazione ossea adeguata.

Effetti extra-scheletrici: data la presenza in vari tessuti di recettori ed enzimi idrossilanti, la vit. D ha effetti pleiotropici, in particolare ormonali, antinfiammatori, antiapoptotici, antifibrotici, antiossidanti e immunomodulatori. Fra questi effetti, sono centrali e importanti, quelli sul metabolismo lipidico e glucidico, in particolare quelli sulla resistenza insulinica che si esplicano attraverso la riduzione dell’espressione di alcune citochine infiammatorie, come l’interleuchina-1 (IL-1) [1, 2, 3]

Vit. D e insulino-resistenza (IR)

Fonte L’Endocrinologo (2022) 23:380–385 https://doi.org/10.1007/s40619-022-01131-3

L’insulino resistenza è una condizione basata sull’alterazione del processo di trasduzione del segnale dell’insulina, per cui concentrazioni di normali o aumentate dell’ormone producono un effetto biologico attenuato. L’IR si manifesta con un quadro clinico variabile, noto come sindrome da insulino-resistenza, che include alterazioni metaboliche, obesità viscerale, danno d’organo e associazione con altre patologie: sindrome dell’ovaio policistico, sindrome metabolica, sindrome delle apnee ostruttive del sonno, malattie neurodegenerative, persino patologie neoplastiche.
E’ stata dimostrata la relazione inversa fra la carenza di vit. D e l’indice HOMA-IR, utilizzato per quantificare la resistenza all’insulina e la funzione delle cellule beta del pancreas. Un’adeguata integrazione riduce l’IR e i livelli circolanti di insulina. La correlazione inversa fra HOMA-IR e IR diventa più forte con l’aumentare dell’Indice di Massa Corporea (IMC).
Al centro di questa relazione così importante (vit. D – RI) ci sono fondamentalmente tre fattori: 1) i recettori per l’insulina; 2) la produzione di citochine proinfiammatorie; 3) i polimorfismi dei recettori della vit. D (VDR) espressi a livello di beta-cellule pancreatiche.

  1. Recettori per l’isulina: la vit. D migliora la sensibilità insulinica aumentando l’espressione del recettore a livello muscolare, epatico e adiposo. Inoltre, promuove la conversione della proinsulina in insulina [4].
  2. Citochine proinfiammatorie: la carenza di vit. D aumenta l’espressione di citochine proinfiammatorie che, nei pazienti con IMC alto e molto alto, possono rappresentare la causa dell’IR. L’obesità, infatti, è associata all’ipovitaminosi D a causa di una minore esposizione alla luce solare comune in queste persone, di uno scarso apporto con l’alimentazione e per l’elevata secrezione di leptina (dal greco leptos = magro, è un ormone di natura proteica principalmente secreto dalle cellule del tessuto adiposo e rappresenta una componente fondamentale nel circuito omeostatico della regolazione del peso corporeo). Gli studi suggeriscono che alti dosaggi di vit. D possono ridurre i livelli circolanti di leptina e l’IR nei pazienti con obesità. Questo effetto sembra legato al legame della vit. D ai suoi recettori nel nucleo paraventricolare ipotalamico, regione che modula l’appetito e la sazietà [4].
  3. Recettori pancreatici VDR: la funzione della beta-cellule pancreatiche può essere influenzata direttamente dalla vit. D attraverso il suo legame con VDR che attiva la produzione di insulina. D’altra parte, la secrezione di insulina dipende strettamente anche dai livelli di calcio: la vit. D legandosi ai suoi recettori pancreatici sollecita l’ingresso di questo ione delle beta-cellule [4, 5, 6]

Vit. D e diabete mellito di tipo 2 (DMT2)

Il DMT2 è una patologia metabolica cronica caratterizzata da una inadeguata produzione di insulina e dal conseguente innalzamento dei livelli di glucosio ematici. Costituisce un fattore di rischio importante per patologie cardiovascolari e per complicanze come malattia retinica, ictus, infarto, insufficienza renale. In molti casi, la diagnosi di DMT2 è preceduta da una fase caratterizzata da livelli di glucosio nel sangue superiori alla norma, ma non così elevati da determinare un diabete conclamato e da elevati livelli di insulina circolante. In tutto il mondo moltissime persone presentano una condizione cosiddetta pre-diabetica senza esserne consapevoli: secondo l’OMS ne soffrono 762 milioni. La condizione di prediabete e quella di diabete conclamato sono strettamente connessi all’obesità (anche se in alcuni casi si può assistere a queste alterazioni metaboliche in persone normopeso o lievemente sovrappeso).
La carenza di vit. D è associata alla condizione di prediabete e alle complicanze micro e macrovascolari secondarie al DMT2.

Una recente metanalisi evidenzia come l’integrazione di vit. D aumenti la sensibilità all’insulina e migliori l’omeostasi glucidica, oltre che attraverso i meccanismi sopracitati, anche attraverso la modulazione dei livelli di paratormone e gli effetti di citochine antinfiammatorie [7].
In accordo con lo Studio prospettico sul diabete nel Regno Unito (UKPDS) i parametro d’elezione per valutare le modificazioni a lungo termine della glicemia è l’emoglobina glicata (HbA1c). Sia l’UKPDS che ulteriori importanti studi indicano come l’integrazione di vit. D possa ridurre i livelli di HbA1c come riflesso alla riduzione di IR [8, 9].
A livello di tessuto adiposo, la vit. D può ridurre lo stato infiammatorio. Sebbene fegato e reni siano i più ampiamente riconosciuti siti del metabolismo della vit. D, anche gli adipociti possiedono la capacità di metabolizzarla. Molti studi in vitro che utilizzano linee cellulari umane di preadipociti sottocutanei e cellule staminali mesenchimali hanno dimostrato, infatti, che la vit. D modula la differenziazione dei preadipociti in adipociti maturi e agisce a diversi livelli per modulare l’infiammazione adiposa [10].
Per quanto riguarda il tessuto muscolare, sappiamo nella fase post-prandiale, esso smaltisce il 70-90% del glucosio circolante, e che livelli adeguati di vit. D sono coinvolti nel miglioramento di questo meccanismo muscolare [11, 12, 13].
E’ stato dimostrato che la carenza di vit. D può essere coinvolta nelle complicanze microvascolari e macrovascolari, come la retinopatia diabetica e l’aterosclerosi periferica e carotidea. L’effetto diretto della vit. D sul tono vascolare riduce inoltre l’afflusso di calcio ai vari tessuti [14,15].
Il livello di vit. D è inoltre legato in modo inverso alla pressione arteriosa. Un importante studio del 2021 suggerisce che i livelli sierici di vit. D sono indipendentemente associati a valori di pressione arteriosa alta e al rischio di ipertensione incidente in una popolazione di mezza età . Oltre alla correlazione negativa tra livelli di vit. D e pressione arteriosa in soggetti non ipertesi, lo sviluppo di ipertensione in pazienti con pressione arteriosa normale in un follow-up di 8 anni è un risultato sorprendente [16]. Tuttavia saranno necessari ulteriori studi di popolazione con un ampio numero di pazienti per valutare il ruolo dell’integrazione e/o dei livelli sierici di vit. D nel prevenire o ritardare lo sviluppo di ipertensione nei pazienti pre-ipertesi.
Uno studio più datato suggerisce che le proprietà antipertensive e protettive dei metaboliti della vit. D sono da attribuire all’inibizione della sintesi della renina da parte della 1,25(OH)2D nel rene [17].

Vit. D e diabete mellito di tipo 1 (DMT1)

Il DMT1 è una patologia autoimmune in cui il sistema immunitario distrugge le beta-cellule del pancreas che producono insulina, portando a una carenza o assenza di questo ormone. La prevalenza di questa patologia è aumentata progressivamente negli ultimi decenni nella maggior parte dei paesi (dai un’occhiata all’epidemiologia).
Le conoscenze attuali indicano che la vit. D potrebbe avere un ruolo positivo nella prevenzione di altre patologie autoimmuni concomitanti e di complicanze gravi. Essa infatti svolge una funzione importante nello sviluppo dell’autotolleranza. Questa relazione è dovuta alla presenza di recettori VDR in tutto il corpo e l coinvolgimento della vit. D nella modulazione dello stato infiammatorio: tala scoperta ha notevolmente ampliato gli studi sugli effetti extra-scheletrici di questa sostanza [18]. Si tratta infatti di una caratteristica molto interessante nel caso del DMT1, in quanto nel pancreas di pazienti affetti da questa patologia è presente un infiltrato infiammatorio composto da linfociti T e B e da macrofagi, cellule bersaglio della vit. D. E’ stato visto che nei modelli animali di DMT1 alte dosi di vit. D contengono e arrestano la progressione infiammatoria, come indicato dalla riduzione quantitativa di linfociti T effettrici e l’attivazione di cell. T regolatrici [19, 20, 21].

Vit. D e diabete mellito gestazionale (DMG)

Il DMG è la condizione clinica più frequente in gravidanza ed è caratterizzato da una intolleranza al glucosio con iperglicemia (qui trovi una descrizione completa e accessibile anche ai non addetti ai lavori).
Una delle modificazioni fisiologiche in gravidanza riguarda proprio il metabolismo della vit. D: i suoi livelli aumentano all’inizio della gravidanza e raggiungono i valori più alti nel terzo trimestre (2-3 volte maggiori rispetto allo stato pre-gravidico) [22]. Tra i fattori che possono svolgere un ruolo nell’insorgenza del DMG vi è l’infiammazione cronica di basso grado [23, 24]: in questo contesto può agire positivamente un buon livello di vit. D . E’ stato visto che bassi livelli di vit. D innescano risposte infiammatorie attraverso la via del nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells (NF-kB), un complesso proteico che agisce come fattore di trascrizione, fondamentale per la risposta delle cellule a stimoli come infiammazione, infezioni, stress e danni cellulari. Inoltre, bassi livelli di vit. D sono legati a un aumento della specie reattive dell’ossigeno (ROS) nelle beta-cellule pancreatiche che ne provocano la morte [25].
In questo processo infiammatorio sono coinvolti anche alcuni geni protettivi inattivati dal processo di ipermetilazione. E’ stato dimostrato che la vit. D è protettiva nei confronti di queste modificazioni genetiche [26], oltre che nei confronti dell’eccessivo aumento di peso [27], altro fattore di rischio per DMG.
Una interessante metanalisi fa il punto sugli studi condotti negli ultimi anni riguardo agli effetti dell’integrazione di vit. D in gravidanza, sottolineando come questa migliori i livelli di lipidi nel sangue di pazienti con diabete gestazionale e riduca gli esiti avversi nei neonati [28]. Questi dati sono in accordo con numerosi studi precedenti [29].

(Per una lettura tecnica su classificazione e diagnosi di DM, puoi leggere questo)

Vit. D e sindrome metabolica (MetS) e malattie cardiovascolari (CV)

(immagine modificata)

Secondo la recente definizione dell’OMS, del National Cholesterol Education Program (NCEP) Adult Tratment Panel III (ATP III) e dell’Internatione Diabetes Federation (IDF), con il termine Sindrome Metabolica si indica un insieme di alterazioni anatomiche e biochimiche caratteristiche: aumento della circonferenza vita, aumento dei trigliceridi, bassi livelli di colesterolo HDL, elevata glicemia, elevata pressione arteriosa ([30]. Gli individui che mostrano queste caratteristiche sono ad alto rischio di contrarre malattie cardiovascolari e DMT2.
E’ stato visto che la carenza di vit. D è un fattore di rischio per la MetS [31], in quanto, in ragione dell’ubiquità dei recettori VDR, la sua presenza induce protezione ossidativa attraverso sistemi antiossidanti come la glutatione perossidasi e la superossido dismutasi, oltre che attraverso l’inibizioni di specie reattive dell’ossigeno [32, 33]. Inoltre, la vit. D risulta essere un regolatore trascrizionale diretto della sintesi endoteliale di ossido nitrico (NO) [molecola con funzioni anti-trombolitiche, anti-infiammatorie, protegge dall’aggregazione piastrinica e dall’adesione dei globuli bianchi alle pareti vascolari, prevenendo la formazione di coaguli e l’aterosclerosi] [34]. Nonostante l’associazione fra livelli di vit. D e MetS sia controversa per la mancanza di studi longitudinali prospettici, vi sono sufficienti studi per considerare i benefici di una integrazione di vit. D [35, 36, 37].
I meccanismi che sottostanno a questa correlazione potrebbero essere diversi, alcuni dei quali già accennati, come la correlazione inversa fra livelli circolanti di vit. D e obesità addominale (con conseguente aumento di citochine infiammatorie). Poiché questo pre-ormone è liposolubile e viene sequestrato-immagazzinato nel grasso di riserva, è intuitivo che le persone con sovrappeso e obesità abbiano bassi livelli circolanti di vit. D.
In sintesi, ecco cosa ricordare rispetto al ruolo della vit. D nella MetS:
1) protezione antiinfiammatoria endoteliale;
2) modulazione dell’IR e protezione dal DMT2 e DMG;
3) effetto ipotensivo;
4) prevenzione dell’ipoparatiroidismo;
5) aumento della lipolisi e inibizione della lipogenesi.

Molti studi indicano che l’integrazione di vit. D ha effetti positivi su diversi aspetti della MetS: in particolare sul miglioramento del profilo lipidico, sulla IR, sulla proteina C reattiva (PCR), sulla modulazione della glicemia a digiuno.
Qui troverai una tabella relativa agli studi sull’integrazione e i suoi effetti sulle patologie analizzate. Queste invece sono le ultime linee guida relative all’integrazione per prevenire l’oseoporosi; dai anche un’occhiata alle raccomandazioni relative all’assunzione nelle varie fasce d’età.

Per completezza, mi sembra importante aggiungere un’altra tessera a questo mosaico così interessante e complesso. Una quantità crescente di studi ha valutato gli effetti della vitamina D sul microbiota intestinale soprattutto nel campo delle  malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI), condizioni multifattoriali in cui la disbiosi gioca un ruolo di primo piano nell’innesco e mantenimento delle lesioni [38].  Bassi livelli di vit. D in pazienti affetti da queste patologie e, soprattutto, la relazione dei livelli sierici con l’attività di malattia, il rischio di recidiva, le risposte alle terapie o il loro fallimento alle terapie hanno determinato un crescente interesse sul possibile ruolo nella patogenesi delle MICI. Studi su modelli sperimentali suggeriscono da una parte che modifiche epigenetiche indotte dall’infiammazione intestinale possano ridurre l’espressione del gene codificante il recettore nucleare della vitamina D [39] e, dall’altra, che la via di segnale vit. D/VDR possa regolare diversi fattori coinvolti nell’infiammazione intestinale [40, 41]. In particolare, la vit. D sembrerebbe influenzare l’integrità della barriera intestinale modulando l’espressione di componenti delle giunzioni strette e aderenti e favorendo il rilascio di peptidi antimicrobici (catelicidine, beta-defensine) da parte delle cellule di Paneth e di mucine, esercitando un effetto immunomodulante sia inibendo il rilascio di citochine pro-infiammatorie, sia favorendo il rilascio di quelle antinfiammatorie e l’induzione di linfociti T regolatori [42].
Importante è anche la relazione inversa, cioè l’effetto che la somministrazione di probiotici può produrre sull’assorbimento e quindi sulla disponibilità della vitamina D. Un chiaro esempio è fornito dal miglioramento degli assorbimenti nella contaminazione batterica dell’intestino tenue in cui per cause diverse si verifica una sovraccrescita/contaminazione della flora intestinale per via discendente o ascendente. Le cause più comuni sono: l’insufficiente secrezione di succo gastrica (da terapia cronica con prazoli, da gastrite atrofica autoimmune o da interventi chirurgici), le alterazioni della motilità (soprattutto in corso di diabete, malattie autoimmuni sistemiche come la sclerodermia, diverticolosi, stenosi, by-pass intestinali) e della valvola ileo-ciecale (da malattia di Crohn o interventi chirurgici) [43].

Formazione di ac. grassi a catena corta, fra cui il butirrato. Fonte: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37422149

Tuttavia esistono ancora poche evidenze relative all’utilità dell’ntegrazione probiotica in questo contesto [44, 45, 46, 47].
Vale la pena sottolineare la possibile interazione funzionale tra microbiota residente e/o probiotici e il VDR. In modelli animali di colite, infatti, l’azione antinfiammatoria del butirrato potrebbe essere connessa all’aumentata espressione genica del VDR indotta dallo stesso composto [48].

 

 

 

 

Conclusioni

La corposa mole di studi e dati derivati indica l’importanza del ruolo protettivo della vit. D nell’eziogenesi di patologie metaboliche, autoimmuni e intestinali. Le sue funzioni extra-scheletriche sono ben documentate da tempo, pertanto il monitoraggio e l’eventuale integrazione sono ritenuti indispensabili al fine di migliorare sia la salute scheletrica che quella metabolica e prevenire patologie connesse alla carenza vitaminica D.

 

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Legumi, preziose fonti proteiche

Sintesi ragionata da “Chimica degli alimenti”, P. Cappelli e V. Vannucchi, Zanichelli

Diverse specie coltivate a scolpo alimentare, comunemente dette legumi appartengono alla famiglia delle Papilionacee. Tra queste numerose varietà di fagiolo, cicerchia, fava, cece, pisello, lenticchia, soia e arachide (che si differenzia da altri legumi per l’elevato contenuto di lipidi da cui si estrae l’olio). Dei numerosi tipi di leguminose conosciuti se ne utilizza solo una ventina.
I legumi rappresentano una delle più grandi riserve proteiche a livello mondiale; soprattutto nei paesi tropicali e subtropicali ne sono la fonte principale dopo i cereali.
Le leguminose fertilizzano il terreno in cui crescono grazie alla simbiosi con il Rhizobium, un batterio azoto-fissatore che trasforma l’azoto atmosferico in composti azotati prevalentemente assorbiti dalla stessa leguminosa. Una parte di questi sali resta nel terreno aumentandone la fertilità.
I legumi possono essere consumati freschi, subito dopo la raccolta, surgelati, pastorizzati in scatola, oppure secchi (così si conservano molto a lungo).
In base alla specie, presentano una composizione chimico-nutrizionale diversa. vediamone le caratteristi9che comuni.

Glucidi: comprendono composti idrosolubili (saccarosio e glucosio in piccole quantità), oligosaccaridi (preziosi alleati del microbiota intestinale) e composi non idrosolubili, come l’amido, i cui granuli variano a seconda della specie e del grado di maturazione. La fibra è particolarmente elevata ed è costituita prevalentemente da composti idrosolubili che si rigonfiano in presenza d’acqua, formando un gel. Tipicamente si tratta di galattomannani, polimeri del D-mannosio e D- galattosio.

Lipidi: con l’eccezione delle arachidi, i legumi contengono limitate quantità di grassi, rappresentati soprattutto dai grassi insaturi oleico e linoleico. Tra i rari grassi saturi, troviamo il palmitico.

Proteine: sono particolarmente elevate e nella soia raggiungono il 37% circo della composizione. Il contenuto in lisina è buono, mentre gli aa solforati sono scarsamente rappresentati. nei semi maturi, sono molto prseenti le globuline, proteine di riserva. albumine e gluteine, costituiscono invece componenti funzionali e strutturali.

Sali minerali: quelli più rappresentati sono ferro e calcio, la cui biodisponibilità può essere limitata dall’acido fitico contestualmente presente. anche il potassio è ben rappresentato.

Vitamine
: in generale le liposolubili sono scarsamente rappresentate. Fra le idrosolubili ricordiamo la tiamina, la niacina e l’acido folico. Scarsamente presenti, vit. C, ac. pantotenico e riboflavina. Durante la cottura, le vitamine vengono perse, fatta eccezione per la vit. a, termoresistente.

E’ opportuno segnalare anche la presenza dei seguenti composti: aflatossine ,lectine, fitati, inibitori delle proteasi, allergeni, saponine.

L’uovo, piccolo universo nutritivo

L’uovo è prodotto dalle ovaie e dalle ghiandole dell’ovidutto delle femmine di volatili e in generale degli ovipari. E’ un alimento molto interessante, per la sua composizione chimica, il suo valore nutrizionale e il suo uso versatile in cucina. Vediamo insieme la composizione chimica e il valore nutrizionale.
Tuorlo: rappresenta una cellula uovo gigantesca, con un citoplasma ricchissimo di sostanze nutritive, oltre che di riserva. Nel suo percorso lungo l’ovidutto si arricchisce, prima di essere espulso, di altre sostanze nutritive, della membrana testacea e del guscio. Il tuorlo è la fonte di riserva nutrizionale per l’embione, nel caso in cui venga fecondato nel suo viaggio all’interno dell’ovidutto, contenendo una ricca scorta di lipidi e di acqua. E’ avvolto nella membrana vitellina e tenuto sospeso fra i due poli dell’uovo dalle calaze, cordoni di albume più denso. Questi due cordoni hanno un ruolo fondamentale durante la cova: proteggono il tuorlo fecondato e quindi l’embrione in sospensione, lo proteggono dalle vibrazioni e ne garantiscono la rotazione verso la fonte di calore.
Il colore del tuorlo è fornito dalla quota di caroteni contenuti e in parte da fattori genetici. Fra i pigmenti, vi sono anche le xantofille.
Le proteine contenute in questa megacellula sono lipoproteine per il 20% del peso secco: in genere si tratta di lipoproteine ad alta densità (alfa e beta-lipovitelline) e a bassa densità. Inoltre è presente una fosfoproteina che lega gli ioni ferro, la fosvitina, e altri gruppi proteici che legano il fosforo e il calcio (minimo, ma superiore a quello contenuto nella carne).
La parte grassa è così composta: trigliceridi per il 65%, lectine e galattolipidi per il 30%, colesterolo per il 5% (ridotto nella produzione in allevamenti intensivi, grazie al controllo della composizione dei mangimi).
Fra gli acidi grassi troviamo: gli insaturi, cioè buoni, per il 65% (oleico e linoleico), saturi per il 35% (palmitico e stearico).
Interessante anche il contenuto di vitamine: il tuorlo contiene una grande quantità di vitamine liposolubili (K, D, A, E). Assente, invece, la vitamina C (la maggior parte delle specie animali è incapace di produrla).

Albume: è una soluzione acquosa di diverse sostanze, principalmente proteine con molte proprietà funzionali (proteggono il tuorlo fecondato agendo direttamente e indirettamente contro eventuali attacchi batterici, sequestrando loro le sostanze trofiche e inibendo i loro enzimi proteolitici. Interessante anche il contenuto di sali minerali (sodio, potassio e magnesio) e di vitamine (gruppo B, vit. PP). Vi è anche una piccola quota di glucosio (0,8%).

I vantaggi nutrizionali dell’uovo sono molteplici e principalmente rappresentati dall’alto valore del contenuto proteico, ma anche dalla presenza di molti grassi insaturi e di numerose vitamine. Ritenerle responsabili dell’aumento di colesterolo è una credenza da sfatare, in quanto grazie ai grassi insaturi e alle lecitine, l’uovo non espone affatto a patologie cardiovascolari, a patto che nella cottura non vengano utilizzate fonti di grasso. Associato a verdure, cereali, frutta, rappresenta quindi un ottimo alimento alla portata di tutti. Inoltre la completa assenza di basi puriniche rende l’uovo particolarmente adatto a chi soffre di iperuricemia e attacchi di gotta. Controindicate, invece, soprattutto frequentemente, nelle persone con calcolosi biliari e frequenti coliche epatiche, poiché la composizione complessa in grassi produce contrazioni della bile.
L’uovo può essere causa di allergie alimentari, anche precoci. E’ consigliabile fare molta attenzione alla sua introduzione durante lo svezzamento. Attenzione merita anche il rischio di salmonellosi: il guscio, che tuttavia protegge l’uovo da contaminazioni, può essere esso stesso fonte di contaminazione; questo perché le vie riproduttive della gallina hanno la porzione terminale in comune con le vie digerenti, a rischio di contaminazione fecale.

Fonte: Chimica degli alimenti, P. Cappelli, V. Vannucchi. Zanichelli

Morfologia (da wikipedia)

 

 

Link

“Dell’uovo e di quando senza saperlo allevai pulcini” su Morel, voci dall’isola

Un po’ di storia
Qualche informazione su come scegliere le uova

 

Nutrizione e infiammazione in menopausa – prima parte

Uno degli argomenti che ha attirato maggiormente la mia attenzione negli ultimi anni è il legame fra stato nutrizionale e patologie della donna. E poiché la menopausa è una fase della vita in cui la donna va incontro a moltissimi cambiamenti che possono renderne la salute più fragile, le mie letture si sono orientate in quel senso. Questo è il primo di una serie di articoli che tratteranno dell’influenza degli stili di vita sulla salute della donna in menopausa, con i quali proverò a guidarvi nell’acquisizione di abitudini alimentari (e non) più sane e preventive.

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Introduzione
Molti studi evidenziano che in menopausa sono richieste attenzioni particolari all’aspetto nutrizionale: questa condizione ormonale modifica infatti molti aspetti della salute femminile, ponendo la donna in una condizione di maggiore fragilità rispetto ad alcune patologie.
Il periodo che precede la menopausa perciò diventa un’importante occasione per migliorare le proprie abitudini alimentari e di attività fisica, in modo da ottimizzare lo stato di salute per gli anni a venire.

In generale, i principali problemi cui una donna va incontro nel periodo della menopausa e in quello successivo sono legati all’aumento di peso, alla perdita di massa ossea e muscolare, all’osteoporosi e un aumento del rischio di malattie cardiovascolari. Inoltre, con l’allungamento della vita media, è aumentato anche l’impatto di alcune patologie metaboliche e neurodegenerative, in particolare il disturbo depressivo maggiore e il morbo di Alzheimer, già di per sé più diffusi nelle donne e maggiormente presenti in menopausa (Dai un’occhiata a questi dati). Il meccanismo che sta emergendo sempre più chiaramente dalle ricerche su questa fase ormonale e il suo corredo di rischio patologico – sia metabolico che scheletrico, cardiologico e neurologico – è rappresentato dall’infiammazione sistemica di basso grado, che però è suscettibile (buona notizia!) ai cambiamenti dello stile di vita, comprese le abitudini alimentari.
Oltre alla maggiore longevità rispetto agli uomini, la vulnerabilità delle donne in menopausa è stata collegata a ulteriori fattori, come influenze genetiche, modificazioni ormonali, determinanti socio-culturali (istruzione e stato occupazionale, storia riproduttiva) [1, 2].
Come già accennato
, l’alimentazione rappresenta un fattore critico, sia come rischio modificabile che come mediatore dell’infiammazione e dell’intensità di alcuni sintomi. La dieta occidentale, uno dei modelli alimentari più diffusi a livello mondiale e caratterizzato da un elevato apporto di grassi saturi e trans, un elevato rapporto omega-6/3, carboidrati raffinati, zuccheri, sale e alimenti ultra-processati, è fortemente associata a elevati livelli di marcatori infiammatori come la proteina C-reattiva (PCR) [3, 4]. Allo stesso tempo, essa è carente di fattori ad azione antinfiammatoria, tra cui fibre alimentari, acidi grassi omega-3 e -9, antiossidanti. È noto che stress, umore disfunzionale e scarsa qualità del sonno, molto frequenti in menopausa, possono determinare preferenze per cibi molto palatabili, ricchi di zuccheri e grassi, esacerbando così il potenziale infiammatorio della dieta occidentale.

Alimentazione e disturbi dell’umore e del sonno
Il desiderio di snack e dolci quando ci si sente ansiosi o depressi è una caratteristica comune alle donne in menopausa [5, 6]. In questa fase ormonale, i disturbi del sonno e dell’umore rendono le donne maggiormente suscettibili al consumo di alimenti ad alta densità energetica immediata [7], in particolare quelli ad alto indice glicemico.
I cibi ad alto indice glicemico hanno la capacità di aumentare rapidamente la glicemia e innescare un picco di insulinemia, favorendo l’accumulo di glucosio nelle cellule e portando ad un aumento di peso, (vedi Focus sugli zuccheri e sul confort food). L’alta palatabilità del confort food è stata associata al rilascio di endorfine, con conseguente amplificazione del circuito di ricompensa e sensazione di piacere [8]. Ulteriori studi hanno dimostrato che anche il glucosio ha la capacità di innescare il rilascio di dopamina insieme alle endorfine nel cervello [9]. Dato che la menopausa di per sé è associata a una diminuzione del livello di oppioidi, questa condizione potrebbe contribuire a favorire la plus-richiesta di glucosio. L’assunzione intermittente e frequente di glucosio può portare a una dipendenza da zucchero [10, 11].

Riduzione dei livelli di estrogeni: conseguenze sul metabolismo e sul peso
La riduzione di estrogeni che si verifica in menopausa ha un impatto diretto sul metabolismo lipidico, il consumo di energia e l’accumulo di massa grassa nei distretti addominali/viscerali. È stato ampiamente dimostrato come questa fase sia associata all’aumento di peso.
Cosa ci dicono in tal senso gli studi più importanti? Lo studio SWAN ci dice che le donne di mezza età subiscono una redistrubuzione del grasso corporeo, che l’accumulo è maggiore nella post menopausa piuttosto che nella pre menopausa e che le donne studiate hanno guadagnato in media 0,7 kg all’anno. Il Nurse Health Study registra invece una media di 3 kg in più in 8 anni di follow-up, per una media di 0,4 kg l’anno. Nel complesso, la massa magra (muscoli e ossa) diminuisce, mentre la massa grassa aumenta, in particolare quella addominale, che agendo come organo endocrino innesca il rilascio di citochine proinfiammatorie, oltre a favorire comorbidità cardiache e metaboliche [12]. E’ importante sottolineare, però, che la menopausa non è il solo fattore di rischio di obesità nelle donne, ma che quest’ultima risulta essere associata a sintomi della menopausa più intensi (valutati dall’indice della menopausa di Blatt-Kupperman o dal questionario sulla qualità della vita specifico per la menopausa, MENQOL *).
Tuttavia, gli studi relativi all’influenza della modificazione dietetica sull’aumento di peso in menopausa ci lasciano qualche dubbio riguardo alla sua esclusiva responsabilità. Sembra invece che l’ipotesi più corretta possa essere associata a un rallentamento metabolico e a un potenziale aumento degli spuntini altamente calorici durante la transizione dall’età fertile alla menopausa, fattori che potrebbero produrre un graduale aumento di peso. Questa ipotesi sarebbe coerente col fatto che piccoli e specifici cambiamenti nel comportamento alimentare potrebbero rimanere scarsamente rilevati dai comuni strumenti di indagine e restare così sottostimati [13, 14].

Alimentazione e infiammazione.
Una dieta ricca di zuccheri è stata ampiamente associata all’infiammazione sistemica che porta a disfunzioni del sistema immunitario e/o all’alterazione della permeabilità intestinale [15]. Quando parliamo di zuccheri alimentari, ci riferiamo soprattutto al saccarosio, disaccaride composto da una molecola di glucosio e una di fruttosio. Questi due monosaccaridi sono isomeri (cioè, hanno la stessa formula molecolare, con differente disposizione degli atomi nello spazio), ma presentano un metabolismo differente. In particolare, il fruttosio ingerito, al contrario del glucosio, non provoca secrezione diretta di insulina e non ha bisogno di questo ormone per entrare nelle cellule; pertanto, il suo metabolismo non è regolato da alcun feed-back.
Inoltre, gli zuccheri alimentari, e il fruttosio in particolare, hanno la capacità di promuovere la sintesi de novo di acidi grassi liberi [16] e la conseguente produzione di grassi di accumulo, oltre che di sottoprodotti metabolici come il lattato o l’acido urico, capaci a loro volta produrre stress ossidativo e infiammazione [17]. Un altro fenomeno legato all’eccesso di fruttosio è la glicosilazione avanzata, con liberazione di prodotti metabolici tossici, prevalentemente proteine  glicosilate, il cui accumulo è associato allo stress ossidativo e all’infiammazione [18]. Inoltre, una dieta ricca di fruttosio e saccarosio induce stress ossidativo nel reticolo endoplasmatico delle cellule intestinali, portando a un “allentamento” delle giunzioni strette fra gli enterociti e quindi a un aumento della permeabilità intestinale, con conseguente disregolazione immunologica [19].
Anche il glucosio, sebbene sia essenziale per una corretta funzione immunitaria, ad alte dosi ha un effetto deleterio sulle stesse cellule immunitarie [20], in quanto fattore scatenante del citochine pro-infiammatorie. Nonostante i diversi percorsi metabolici, fruttosio e glucosio sembrano quindi essere ugualmente coinvolti nei fenomeni proinfiammatori.
È interessante notare che gli zuccheri aggiunti provenienti dalle bevande edulcorate, indipendentemente dalla loro natura, sono stati associati a una maggiore presenza di marcatori infiammatori e a un maggiore picco glicemico rispetto a quello generato dagli zuccheri presenti negli alimenti [21]. E’ noto da tempo che gli zuccheri raffinati e con indice glicemico elevato (tipicamente presenti nelle comuni bevande edulcorate) sono associati allo stress ossidativo, all’attivazione di vari percorsi pro-infiammatori e ai marcatori infiammatori elevati (come la proteina C reattiva). Al contrario, i carboidrati a basso indice glicemico (complessi e da fonti integrali) sono associati a una diminuzione del livello di indici infiammatori [22].

Anche i grassi alimentari hanno effetti pro-infiammatori. È stato dimostrato che gli acidi grassi saturi (SFA) sono associati all’infiammazione attraverso diverse vie: in particolare, l’attivazione di recettori di membrana coinvolti nella risposta immunitaria innata, la produzione di ceramide (particolari molecole lipidiche della membrana cellulare) e la formazione di grosse strutture lipidiche. Una dieta ricca di grassi è peraltro associata a un elevato passaggio di lipopolisaccaride batterico (LPS) attraverso la parete intestinale. Il LPS può attraversare la barriera intestinale attraverso vie transcellulari  (chilomicroni, assorbimento lipidico) o vie paracellulari come avviene nell’intestino permeabile [23]. Una dieta ricca di grassi può portare, fra gli altri effetti, all’accumulo intracellulare di acido palmitico che genera la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il rilascio di proteine pro-infiammatorie. Allo stesso modo, gli acidi grassi trans, che provengono principalmente da grassi idrogenati dei cibi industriali e dalla cottura prolungata degli oli vegetali, sono associati all’attivazione di vie pro-infiammatorie e all’aumento di marcatori come la proteina C reattiva [24]. Infine, due parole su omega 6 e omega 3: gli acidi grassi polinsaturi n-6, i cosiddetti omega-6, sono precursori delle prostaglandine e leucotrieni, molecole essenziali per l’insorgenza dell’infiammazione. Al contrario, gli omega-3, hanno proprietà antinfiammatorie e sono i precursori di mediatori dello “spegnimento” del processo infiammatorio. Un elevato rapporto n-6/n-3, tipico delle diete occidentali, contribuisce al mantenimento e all’amplificazione del quadro infiammatorio [25 , 26, 27].

Dieta e permeabilità intestinale
Fondamentale per il nostro sistema immunitario risulta essere l’integrità della parete intestinale, che si basa, in particolare, sui seguenti fattori: lo spessore del muco intestinale (barriera fisica che protegge gli enterociti) e l’integrità delle giunzioni strette. Quando questa barriera è danneggiata (intestino permeabile) si verifica il passaggio di endotossine o PAMP (Pathogen Associated Molecular Patterns, come l’LPS) nel tessuto sottoepiteliale e nel flusso sanguigno sottostante, il che porta a infiammazione locale e sistemica [28, 29].
Il microbiota intestinale è definito dai microrganismi (principalmente batteri) che sono ospitati e vivono in simbiosi nel nostro tratto intestinale. La biodiversità e l’abbondanza del microbiota sono protettive per la nostra salute: alcune specie batteriche possono aumentare (tra gli altri benefici) lo spessore del muco intestinale, promuovere la funzionalità e l’aumento delle giunzioni strette, oltre al rilascio di acidi grassi corti (SCFA) – acetato, propionato e butirrato. Questi prodotti metabolici hanno un ruolo trofico per gli enterociti (soprattutto il butirrato), in quanto migliorano la funzione di barriera intestinale, favoriscono l’espressione delle giunzioni strette ed esprimono proprietà antinfiammatorie [30, 31, 32].
La disbiosi intestinale, definita come disequilibrio batterico sia qualitativo che quantitativo, si verifica con maggiore frequenza negli individui anziani; questa evenienza è coerente con il fatto che l’invecchiamento è legato all’infiammazione cronica, o “inflammaging”, considerata un fattore di rischio per varie malattie [33]. La composizione del microbiota è fortemente influenzata anche dall’assunzione alimentare: una dieta ricca di fruttosio porta a disbiosi con una riduzione dei batteri produttori di butirrato e aumento di batteri Gram-negativi, portatori di LPS [34, 35].
Ma di cosa si nutrono i nostri batteri?
La fibra alimentare derivata da alimenti di origine vegetale è il principale substrato del microbiota intestinale, modulando la diversità e l’abbondanza delle specie batteriche: il ruolo protettivo di una dieta ricca di fibre per la salute generale e l’integrità intestinale è ben documentato [36]. Al contrario, il basso apporto di fibre, caratteristico della dieta occidentale, è stato associato alla disbiosi, all’alterazione della permeabilità intestinale e alla successiva infiammazione di basso grado [37].

Dieta e neurogenerazione
L’alimentazione occidentale con il suo apporto infiammatorio è associata a disturbi dell’umore, del sonno e dell’ansia, condizioni che danneggiano la permeabilità intestinale e a lungo andare diventano fattori di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche e neurodegenerative [38]
Nei modelli animali, gli studi hanno dimostrato che gli stress (psicologici, fisici o sociali) portano a un aumento della permeabilità intestinale. Attraverso la produzione di cortisolo, lo stress provoca un aumento della disponibilità di nutrienti, acqua ed elettroliti (incluso il sodio) che possono aiutare l’organismo a far fronte al presunto “pericolo”. A causa della connessione umorale (ad esempio attraverso catecolamine, cortisolo) e nervosa (fibre nervose simpatiche adrenergiche) tra l’intestino e il cervello, l’aumentata disponibilità di acidi grassi può contribuire ad aumentare la permeabilità intestinale, consentendo il trasferimento di endotossine con l’innesco successivo di un’infiammazione di basso grado [39].
Di recente è stato stabilita una forte connessione tra disturbi del sonno e infiammazione sistemica di basso grado, mediata da una serie di percorsi organici e sistemici interconnessi. Questi includono disregolazione immunitaria, squilibri ormonali e alterazioni metaboliche. I disturbi cronici del sonno sono infatti collegati a livelli elevati di marcatori infiammatori come PCR, interleuchina-6 (IL-6), fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e all’aumento di cortisolo [40].

Conclusioni
La menopausa è un periodo critico nella vita di una donna che si estende ben oltre l’invecchiamento riproduttivo, comprendendo profondi cambiamenti ormonali, metabolici e neurobiologici. Nuove evidenze sottolineano il ruolo dell’infiammazione cronica di basso grado come filo conduttore che la menopausa a una maggiore suscettibilità a varie patologie, compresi depressione maggiore e a malattie neurodegenerative. I comportamenti alimentari, in particolare l’adozione di un modello alimentare occidentale, possono esacerbare questo stato infiammatorio, contribuendo alla disregolazione metabolica e alterando l’asse intestino-cervello. Questi fattori combinati possono, nel tempo, compromettere la funzione cognitiva e la salute mentale.
Ad oggi lo stile di vita rappresenta ancora e sempre di più il fattore preventivo più potente, oltre che più economico.
Nei prossimi articoli vedremo nel dettaglio il ruolo dell’alimentazione prevalentemente vegetale e a basso impatto infiammatorio.

 

*Entrambi i questionari contengono criteri di disturbo dell’umore e del sonno e di compromissione cognitiva.

Bibliografia

Recensione di Ultracorpi di Francesca Marzia Esposito (minimum fax, 2024)

Ultracorpi di Francesca Marzia Esposito (minimum fax, 2024) è un saggio narrativo sulla ricerca della perfezione corporea. L’autrice ne parla attraverso una scrittura superba e intrecciando approfondimenti su fatti e personaggi a racconti autobiografici .
C’è un’immagine che si specchia e produce uno sdoppiamento: due tipologie di corpi che, l’uno di fronte all’altro, mostrano il lavoro meticoloso, estremo e diametralmente opposto che ha come obiettivo La ricerca utopica di una nuova perfezione, come recita il sottotitolo. Due parti del libro, due modelli, un fratello e una sorella: l’uno dedito al body building e l’altra alla danza classica. Da questo confronto l’autrice parte per dipanare storie, raccontare biografie di personaggi illustri e non, porsi (e porci) domande.

In Ultracorpi non ci sono moniti né giudizi, ma fatti e considerazioni filosofiche su cosa certe scelte e certi comportamenti possano produrre e comunicare; su quanto a volte sia labile il confine fra la cura del corpo e il desiderio di perfezione che sconfina nell’ossessione, invade ogni angolo dell’esistenza, diventa patologia.
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Un corso ECM sulla selettività alimentare

Il problema della selettività alimentare in età pediatrica e adolescenziale è sempre più frequente, sia nella pratica ambulatoriale che in ambito di ristorazione scolastica. Tempo fa, l’associazione Food Insider mi ha chiesto di parlarne in alcuni brevi video informativi.
La questione più annosa, oltre al problema in sé, è la mancanza di competenze diffuse sul territorio nazionale. Questo costringe le famiglie con bambini selettivi a una ricerca affannosa di professionisti in grado di strutturare percorsi adeguati, personalizzati, in team con logopedisti e altri professionisti sanitari.
Da queste necessità e dall’esperienza pluriennale mia e della mia collaboratrice dott.ssa Gloria Bianchi, nasce il corso accreditato “Selettività alimentare: caratteristiche e strategie nutrizionali”, aperto a biologi, medici, dietisti e psicologi, che garantisce 10 crediti ECM.
Il corso è aperto anche a studenti o professionisti che non hanno bisogno di crediti.
Di seguito il programma

25 ottobre 2025 | Ore 9:00 – 17:00

Mattina | 9:00 – 13:00

  • Selettività alimentare: dalla fisiologia ai comportamenti disfunzionali

  • Comportamenti disfunzionali: caratteristiche, sfumature, diagnosi

  • Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID): epidemiologia e profilo clinico

Pomeriggio | 14:00 – 17:00

  • Strategie nutrizionali per la prevenzione

  • Intervento nutrizionale nei casi di selettività conclamata

  • Approccio nutrizionale in soggetti con ARFID

  • Lavoro multidisciplinare e coinvolgimento dei genitori

I costi:

Con crediti ECM €130,70
Senza Crediti ECM € 100,00

Di seguito, il link al quale troverete i video sulla selettività alimentare:
Video-pillole sulla selettività alimentare – Pane e parole

Equilibri biologici e salute umana

Negli ultimi dieci anni la mia attenzione e il mio interesse alla relazioni ecologia batterica-salute umana si sono arricchiti di uno sguardo più ampio verso altri equilibri e relazioni in apparenza lontanissimi eppure così strettamente legati alla nostra salute da non poterne prescindere. Studiando le conseguenze della perdita della biodiversità nelle varie nicchie ecologiche della Terra, appaiono ovvie e meravigliose la misura e la modalità con cui ogni sistema si tiene, si lega e si influenza reciprocamente. E come l’attività antropica influisce su questa meraviglia. Se gli equilibri biologici ambientali delle foreste e degli oceani vengono modificati dalle attività umane, la qualità della nostra vita non può che peggiorare.
Gli aspetti più preoccupanti sono la lentezza con cui i governi si attivano in direzione eco-correttiva e il crescente negazionismo che ogni giorno pervade i contesti di comunicazione e informazione. Mentre ne scrivo, mi sento inutile, disarmata, impotente, pur sapendo quanto valore abbia l’impegno individuale nei contesti in cui si può metterlo in pratica. Il mio contesto, con i miei minuscoli mezzi e la mia piccola testa, è lo studio, la pratica ambulatoriale, la divulgazione di informazioni e contenuti. Ma la frustrazione nel farlo è un sentimento inevitabile, tanto la tenacia nel continuare a farlo. Ecco dunque, un altro piccolo pezzo di strada che vorrei condividere con chi legge.

Questo contributo non ha la pretesa di aggiungere valore ad argomenti così innegabilmente validi e importanti, ma semmai di mantenere alte curiosità e attenzione in chi, come me, lavora nel capo sanitario. La speranza è quella di essere in tanti, sempre di più, di condividere informazioni e dati utili a lavorare meglio e nella direzione giusta. Qual è la direzione giusta? Io credo, sia agire con i propri strumenti nel rispetto degli equilibri biologici umani, sapendo che non sono gli unici importanti, ma che al contrario dipendono profondamente dal resto dei sistemi e dei contesti ambientali. Ricostruire, ristabilire, ripristinare, in una parola prevenire ciò che possiamo prevenire e trattare come si può ciò che va trattato.
Ma eccoci ai nostri assi, alla nostra meravigliosa realtà biologica, il nostro patrimonio di biodiversità e complessità da cui partire per un percorso di approfondimento e considerazioni sempre più ampie e integrate.

Qualche anno fa, un gruppo di ricercatori guidati dalll’Università di Bologna, ha individuando, attraverso l’analisi del DNA presente in resti fecali risalenti a circa 50.000 anni fa (Uomo di Neanderthal), microrganismi che ancora oggi ritroviamo nell’intestino dell’uomo moderno. Se ci pensiamo, è una scoperta straordinaria che ci avvicina ai nostri lontanissimi progenitori e che ci pone di fronte a una realtà inconfutabile: l’evoluzione ha avvantaggiato alcune popolazioni microbiche intestinali piuttosto che altre e ne ha conservato la biodiversità. Si tratta di ceppi batterici ancestrali con cui nasciamo; batteri pionieri, come li definisce Vassilios Fanos, ordinario dell’Università di Cagliari, studioso di Microbiota e Metabolomica (la scienza che si occupa di metaboliti derivati dai processi cellulari).
La descrizione di uno dei suoi testi più noti (I batteri pionieri pilastri della salute. Gravidanza, nascita, allattamento e crescita tra microbiomica e metabolomica), spiega molto bene l’importanza di conoscere i meccanismi che regolano la relazione fra il corpo umano e i microrganismi che lo popolano: “I batteri, attraverso i metaboliti, dialogano tra di loro, con le singole cellule e con tutti i nostri organi, dal cervello alla bocca, dal polmone alla cute, li orientano e li controllano. La metabolomica ci consente di decifrare queste comunicazioni, che rappresentano il linguaggio segreto del nostro corpo. I veri protagonisti, nella creazione di queste reti di relazioni, sono i batteri pionieri, quelli che per primi, alla nascita, colonizzano i distretti corporei. La conoscenza di queste reti può aiutarci a comprendere meglio le malattie, a curarle e a prevenirle in modo personalizzato. Esiste uno stretto rapporto tra microbiota e alimentazione, quando mangiamo nutriamo anche il nostro microbiota”.
La recente rilettura del saggio di Martin J. Blaser, Che fine hanno fatto i nostri microbi? Come l’abuso di antibiotici aumenta le malattie della nostra epoca (Aboca Edizioni), mi porta ad aggiungere un’ulteriore considerazione a quelle di Fanos: e cioè che lo scardinamento di equilibri biologici ancestrali a causa della scomparsa di ceppi microbici ben selezionati e integrati nelle nicchie biologiche umane non fa che renderci sempre più vulnerabili alle malattie. Negli ultimi dieci anni questa fragilità si configura non solo attraverso la resistenza antibiotica di certi batteri patogeni e come conseguente disfunzionalità dei nostri sistemi (immunitario, endocrino, renale, cardiocircolatorio e metabolico) che risultano così maggiormente predisposti alle malattie. Dagli anni settanta a oggi, Blaser ha studiato la relazione fra lle variazioni dell’ecologia di specifici ceppi batterici e l’aumento di incidenza di alcune patologie, fra cui il diabete mellito di tipo 1 e l’obesità giovanile.

Torniamo all’intestino. Oggi sappiamo che il microbiota intestinale è coinvolto in importanti funzioni metaboliche, di protezione, di sintesi e che influenza le azioni di diversi organi, come il cervello, il tessuto adiposo, il pancreas endocrino e il muscolo scheletrico.
Ne consegue che chi si occupa di salute deve considerare l’organismo umano in tutta la sua complessità e biodiversità con particolare attenzione agli assi microbiotici. Vediamoli in sintesi.

Fonte: Impact of gut microbial dysbiosis in human diseases (Shinga et al. 2023)

Asse intestino-cervello
Che tra il microbioma intestinale umano e il cervello vi sia un asse funzionale con cui i due sistemi (gastrointestinale e neurologico) comunicano e si influenzano reciprocamente è noto da molti anni. Così com’è nota l’importanza degli strumenti nutrizionali, dei probiotici e dei prebiotici come supporto al buon funzionamento dell’asse intestino-cervello.
Sappiamo da tempo che i lipopolisaccaridi batterici forniscono una stimolazione tonica di basso grado del sistema immunitario innato e che una stimolazione eccessiva dovuta a disbiosi batterica, con conseguente permeabilità intestinale, può produrre un’infiammazione del sistema nervoso sistemico e/o centrale. Gli enzimi batterici, inoltre, possono produrre metaboliti neurotossici come l’acido D-lattico e l’ammoniaca. D’altra parte, i microbi intestinali, in stato di eubiosi o di disbiosi, sono in grado di produrre ormoni e neurotrasmettitori identici a quelli umani, influenzando così la risposta immunitaria. Attraverso questi e altri meccanismi, molti dei quali mediati dal nervo vago, il microbiota intestinale modula il sonno e la risposta allo stress, l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. L’asse intestino-cervello è in grado inoltre di influenzare la memoria, l’umore e la concentrazione.

Generi batterici identificati nel microbiota del latte materno (Londono-Sierra et al. 2023)

Asse microbiota mamma-bambino
Esistono prove sempre più evidenti che la dieta, lo stato nutrizionale delle donne durante la gravidanza e la composizione microbica del latte materno possono modulare il microbiota intestinale del neonato. Si stima infatti che circa il 25-30% del microbiota infantile abbia origine nel latte materno, il cui microbiota centrale è composto da nove generi (specie diverse di Staphylococcus, Streptococcus, Serratia, Pseudomonas, Corynebacterium, Ralstonia, Propionibacterium, Sphingomonas e Bradyrhizobium).
Sappiamo già da qualche anno che la genetica dell’ospite (nutrice), l’ambiente prenatale e la modalità di parto possono modellare il microbioma del neonato alla nascita. E che in seguito, fattori postnatali come il trattamento antibiotico, la dieta o l’esposizione ambientale, modulano ulteriormente lo sviluppo del microbioma e del sistema immunitario del neonato, proteggendolo oppure esponendolo a patologie di vario tipo. Diventa importante, dunque, comprendere la composizione del microbioma nelle prime fasi della vita.

Rappresentazione dell’eubiosi e della disbiosi e dei relativi effetti e conseguenze. Fonte: Myokines and Microbiota: New Perspectives in the Endocrine Muscle–Gut Axis. Saponaro. F. et al, Nutrients, 2024

Asse intestino-muscolo
Gli studi sulla modalità con cui i microrganismi del microbiota intestinale riescono a modificare la quantità e la qualità della massa muscolare, i processi anabolici e catabolici e le funzioni del muscolo scheletrico, sono sempre più numerosi e sempre più interessanti. Essi rivelano anche che il microbiota intestinale è  a sua volta modificato dal muscolo. Sembra dunque che il microbiota intestinale possa influenzare (in maniera positiva o negativa) la massa e la funzione muscolare regolando il metabolismo delle sostanze e dell’energia, la sensibilità all’insulina, l’infiammazione, l’immunità sistemica e la produzione di miochine.
Di recente ho partecipato alla pubblicazione su Nutrients di una review che spero renda più chiaro questo equilibrio così complesso. Il testo è consultabile gratuitamente.

Asse intestino-vagina-vescica
Il microbiota vaginale umano comprende una vasta gamma di microrganismi benefici (soprattutto Lattobacilli) e agenti patogeni opportunistici. Per studiare il microbiota vaginale sono stati sviluppati molteplici approcci che coinvolgono le tecnologie “-omiche”. L’integrazione dei dati provenienti dalle scienze “-omiche” permette di decifrare informazioni funzionali provenienti da comunità microbiche complesse attraverso l’associazione di profili batterici e metabolici. La disbiosi vaginale è spesso associata a diverse malattie ginecologiche (ad esempio vaginosi batterica, candidosi vulvovaginale, infezioni da Clamidia) e urologiche (cistiti recidivanti). Negli ultimi dieci anni le indagini sul microbiota vaginale sono aumentate in modo esponenziale. Questi studi hanno rivelato che la composizione microbica vaginale è in stretta relazione con quella intestinale e che l’asse intestino-distretto vaginale influenza anche la salute delle vie urinarie.

Asse intestino-fegato
In condizioni fisiologiche microbiota intestinale e fegato costituiscono un asse protettivo a difesa dell’organismo. In particolare, questo asse ha un ruolo fondamentale nel prevenire l’infiammazione sistemica: l’integrità della barriera intestinale permette il passaggio di una piccola quantità di prodotti pro-infiammatori batterici e xenobiotici. Questi attraverso la vena porta giungono al fegato dove vengono neutralizzati, prevenendo così l’infiammazione sistemica.
La rottura del delicato equilibrio tra fattori pro-infiammatori e meccanismi di tolleranza provoca una sovracrescita batterica, la disbiosi intestinale e la maggiore permeabilità della barriera intestinale. Ciò induce una risposta immunitaria disfunzionale che alimenta e amplifica l’infiammazione epatica e sistemica.

La complessità di questi sistemi deve indurci a riflettere. Cambiamenti profondi nell’ecologia batterica umana, come quelli indotti dalla resistenza agli antibiotici e dalla diffusione di inquinanti e interferenti endocrini attraverso l’acqua e gli alimenti, influenzano gli equilibri selezionati dall’evoluzione, insieme a quelli animali, vegetali, batterici, attraverso i millenni. Dall’infinitamente piccolo all’inimmaginabile grande, tutto ci imbriglia in una rete di relazioni strettissime e complesse che risentono di ogni cambiamento climatico, di ogni estinzione o sovra-popolamento. Le catene alimentari di tutto il pianeta ci coinvolgono e ci riguardano da vicino; così come gli adattamenti degli altri esseri viventi di nicchie ecologiche terrestri e marine, vicine o lontanissime che siano.
Questo, credo, sia la direzione giusta verso cui guardare, verso cui continuare a muoversi, in scienza e coscienza. Vi aspetto qui per i prossimi passi.

 

Per approfondire

Corso online “Supporto nutrizionale in età pediatrica”

La prevenzione continua a essere importante, anche se non se ne parla quasi più. Io ci credo ancora, per questo continuo a lavorare con i bambini. Quindi, ecco una proposta formativa articolata in tre incontri online.
Il percorso è riservato alle colleghe e ai colleghi interessati alla nutrizione in età pediatrica.

E’ possibile frequentare i seminari online singolarmente o come ciclo completo.

Costo di un seminario 80 € + IVA
Costo del ciclo completo 220 € + IVA
La quota di iscrizione va versata al momento dell’iscrizione.
Non sono previsti ECM.
Gli incontri non vengono registrati, si attivano con almeno 5 iscritti.

La frequenza dell’intero ciclo prevede:
1. il rilascio di materiale didattico consistente in una bibliografia commentata e una dispensa sintetica sugli argomenti trattati;
2. un colloquio online o telefonico di 30 minuti relativo a un caso clinico pediatrico;
3. l’inserimento nella mailing list del gruppo Disturbi Alimentari Precoci per restare aggiornati sugli eventi formativi 2024.

Primo incontro

Il primo dei tre incontri online del ciclo verterà sull’inquadramento del caso. In particolare, avrà l’obiettivo di fornire strumenti anamnestici adeguati e plastici, adattabili da caso a caso; si occuperà del linguaggio con cui porsi davanti a una bambina o un bambino, della necessità di procedere attraverso più incontri, della modalità rispettosa e sensibile con cui effettuare le misure antropometriche. Fino al momento in cui, raccolti tutti i dati, siamo pronti a strutturare un percorso di riabilitazione nutrizionale personalizzato e presentarlo ai genitori.

 

Secondo incontro

Durante il secondo incontro parleremo del senso del gusto, di come si instaurano i gusti personali, da cosa vengono condizionati e come condizionano a loro volta il comportamento alimentare. Quest’ultimo è costituito da una serie di dinamiche codificate attraverso la genetica, l’educazione, la tradizione e la cultura. Ma anche fattori come l’etnia, lo stato ormale e l’età hanno una importante influenza sulle scelte alimentari e sulle modalità nutrizionali.

 

 

 

Terzo incontro
Il terzo e ultimo incontro sarà incentrato sugli strumenti necessari a strutturare il percorso genitoriale, parallelo e complementare a quello dedicato al bambino. Dal linguaggio da adottare in famiglia alle modalità di contenimento di eventuali fallimenti e alla valorizzazione degli obiettivi raggiunti, verranno affrontati i modi possibili con i quali inserire nel percorso riabilitativo del bambini la presenza attiva e incoraggiante degli adulti di riferimento.

 

 

 

Per ulteriori informazioni scrivimi: info@giusidurso.com

Social Fame, un libro necessario

All’inizio dell’estate, ho letto Social Fame, Adolescenza, social media e disturbi alimentari di Laura Dalla Ragione e Raffaella Vanzetta, pubblicato da Il Pensiero Scientifico Editore. Delle due autrici e curatrici avevo già letto diversi lavori, fra saggi e articoli, soprattutto per interesse professionale. La lettura di questo testo però ha assunto da subito una connotazione particolare e non solo perché sono una nutrizionista. Di saggi sui disturbi della condotta alimentare ne ho letti molti, ma questo mi è sembrato un testo imprescindibile, uno di quei libri da diffondere il più possibile e di cui parlare in ogni contesto educativo. Per questo, i primi di luglio ho invitato nel mio studio colleghi, lettori comuni, genitori, studenti, educatori a confrontarsi sui temi del libro insieme a una delle autrici, Laura Dalla Ragione, che si è collegata da remoto. Mi è parso un tempo speso bene, un modo utile e interessante di affrontare la questione dei disturbi alimentari e dei social media da punti di vista diversi, in certi casi anche molto distanti fra loro, ma allo stesso modo importanti e necessari.

Continua a leggere

Il lavoro del nutrizionista nell’obesità infantile

Sovrappeso e obesità in età evolutiva.
Il problema, in genere, ha radici profonde e questo concetto per molti genitori è una novità. Alle domande di che parto è nato, come è stato svezzato, qual è il vostro modello alimentare, potrei vedere il libretto pediatrico, si guardano fra loro e mi guardano con l’espressione incredula: cosa c’entra, sembrano chiedere a loro volta. Quindi, parto da lì, dall’incredulità, e cerco di capire da dove tutto è cominciato. A volte è semplice, altre no. Ci sono resistenze, spesso diffidenza nel percorso, la fatica di fronte al cambiamento, l’influenza delle mode alimentari, le informazioni fuorvianti del web. Certe frasi, negli anni, le ho memorizzate: a volte sorrido, altre mi sgomento.
Comincio dell’incredulità e mi armo di pazienza, rispetto e passione. Comincio da mamma e papà, che significa arrivare al bambino in punta di piedi, giocando, leggendo, raccontando storie, con la delicatezza che gli è dovuta.
Questo sarà l’argomento del webinar del 17 giugno dedicato ai professionisti.