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Nutrizione e infiammazione in menopausa – prima parte

Uno degli argomenti che ha attirato maggiormente la mia attenzione negli ultimi anni è il legame fra stato nutrizionale e patologie della donna. E poiché la menopausa è una fase della vita in cui la donna va incontro a moltissimi cambiamenti che possono renderne la salute più fragile, le mie letture si sono orientate in quel senso. Questo è il primo di una serie di articoli che tratteranno dell’influenza degli stili di vita sulla salute della donna in menopausa, con i quali proverò a guidarvi nell’acquisizione di abitudini alimentari (e non) più sane e preventive.

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Introduzione
Molti studi evidenziano che in menopausa sono richieste attenzioni particolari all’aspetto nutrizionale: questa condizione ormonale modifica infatti molti aspetti della salute femminile, ponendo la donna in una condizione di maggiore fragilità rispetto ad alcune patologie.
Il periodo che precede la menopausa perciò diventa un’importante occasione per migliorare le proprie abitudini alimentari e di attività fisica, in modo da ottimizzare lo stato di salute per gli anni a venire.

In generale, i principali problemi cui una donna va incontro nel periodo della menopausa e in quello successivo sono legati all’aumento di peso, alla perdita di massa ossea e muscolare, all’osteoporosi e un aumento del rischio di malattie cardiovascolari. Inoltre, con l’allungamento della vita media, è aumentato anche l’impatto di alcune patologie metaboliche e neurodegenerative, in particolare il disturbo depressivo maggiore e il morbo di Alzheimer, già di per sé più diffusi nelle donne e maggiormente presenti in menopausa (Dai un’occhiata a questi dati). Il meccanismo che sta emergendo sempre più chiaramente dalle ricerche su questa fase ormonale e il suo corredo di rischio patologico – sia metabolico che scheletrico, cardiologico e neurologico – è rappresentato dall’infiammazione sistemica di basso grado, che però è suscettibile (buona notizia!) ai cambiamenti dello stile di vita, comprese le abitudini alimentari.
Oltre alla maggiore longevità rispetto agli uomini, la vulnerabilità delle donne in menopausa è stata collegata a ulteriori fattori, come influenze genetiche, modificazioni ormonali, determinanti socio-culturali (istruzione e stato occupazionale, storia riproduttiva) [1, 2].
Come già accennato
, l’alimentazione rappresenta un fattore critico, sia come rischio modificabile che come mediatore dell’infiammazione e dell’intensità di alcuni sintomi. La dieta occidentale, uno dei modelli alimentari più diffusi a livello mondiale e caratterizzato da un elevato apporto di grassi saturi e trans, un elevato rapporto omega-6/3, carboidrati raffinati, zuccheri, sale e alimenti ultra-processati, è fortemente associata a elevati livelli di marcatori infiammatori come la proteina C-reattiva (PCR) [3, 4]. Allo stesso tempo, essa è carente di fattori ad azione antinfiammatoria, tra cui fibre alimentari, acidi grassi omega-3 e -9, antiossidanti. È noto che stress, umore disfunzionale e scarsa qualità del sonno, molto frequenti in menopausa, possono determinare preferenze per cibi molto palatabili, ricchi di zuccheri e grassi, esacerbando così il potenziale infiammatorio della dieta occidentale.

Alimentazione e disturbi dell’umore e del sonno
Il desiderio di snack e dolci quando ci si sente ansiosi o depressi è una caratteristica comune alle donne in menopausa [5, 6]. In questa fase ormonale, i disturbi del sonno e dell’umore rendono le donne maggiormente suscettibili al consumo di alimenti ad alta densità energetica immediata [7], in particolare quelli ad alto indice glicemico.
I cibi ad alto indice glicemico hanno la capacità di aumentare rapidamente la glicemia e innescare un picco di insulinemia, favorendo l’accumulo di glucosio nelle cellule e portando ad un aumento di peso, (vedi Focus sugli zuccheri e sul confort food). L’alta palatabilità del confort food è stata associata al rilascio di endorfine, con conseguente amplificazione del circuito di ricompensa e sensazione di piacere [8]. Ulteriori studi hanno dimostrato che anche il glucosio ha la capacità di innescare il rilascio di dopamina insieme alle endorfine nel cervello [9]. Dato che la menopausa di per sé è associata a una diminuzione del livello di oppioidi, questa condizione potrebbe contribuire a favorire la plus-richiesta di glucosio. L’assunzione intermittente e frequente di glucosio può portare a una dipendenza da zucchero [10, 11].

Riduzione dei livelli di estrogeni: conseguenze sul metabolismo e sul peso
La riduzione di estrogeni che si verifica in menopausa ha un impatto diretto sul metabolismo lipidico, il consumo di energia e l’accumulo di massa grassa nei distretti addominali/viscerali. È stato ampiamente dimostrato come questa fase sia associata all’aumento di peso.
Cosa ci dicono in tal senso gli studi più importanti? Lo studio SWAN ci dice che le donne di mezza età subiscono una redistrubuzione del grasso corporeo, che l’accumulo è maggiore nella post menopausa piuttosto che nella pre menopausa e che le donne studiate hanno guadagnato in media 0,7 kg all’anno. Il Nurse Health Study registra invece una media di 3 kg in più in 8 anni di follow-up, per una media di 0,4 kg l’anno. Nel complesso, la massa magra (muscoli e ossa) diminuisce, mentre la massa grassa aumenta, in particolare quella addominale, che agendo come organo endocrino innesca il rilascio di citochine proinfiammatorie, oltre a favorire comorbidità cardiache e metaboliche [12]. E’ importante sottolineare, però, che la menopausa non è il solo fattore di rischio di obesità nelle donne, ma che quest’ultima risulta essere associata a sintomi della menopausa più intensi (valutati dall’indice della menopausa di Blatt-Kupperman o dal questionario sulla qualità della vita specifico per la menopausa, MENQOL *).
Tuttavia, gli studi relativi all’influenza della modificazione dietetica sull’aumento di peso in menopausa ci lasciano qualche dubbio riguardo alla sua esclusiva responsabilità. Sembra invece che l’ipotesi più corretta possa essere associata a un rallentamento metabolico e a un potenziale aumento degli spuntini altamente calorici durante la transizione dall’età fertile alla menopausa, fattori che potrebbero produrre un graduale aumento di peso. Questa ipotesi sarebbe coerente col fatto che piccoli e specifici cambiamenti nel comportamento alimentare potrebbero rimanere scarsamente rilevati dai comuni strumenti di indagine e restare così sottostimati [13, 14].

Alimentazione e infiammazione.
Una dieta ricca di zuccheri è stata ampiamente associata all’infiammazione sistemica che porta a disfunzioni del sistema immunitario e/o all’alterazione della permeabilità intestinale [15]. Quando parliamo di zuccheri alimentari, ci riferiamo soprattutto al saccarosio, disaccaride composto da una molecola di glucosio e una di fruttosio. Questi due monosaccaridi sono isomeri (cioè, hanno la stessa formula molecolare, con differente disposizione degli atomi nello spazio), ma presentano un metabolismo differente. In particolare, il fruttosio ingerito, al contrario del glucosio, non provoca secrezione diretta di insulina e non ha bisogno di questo ormone per entrare nelle cellule; pertanto, il suo metabolismo non è regolato da alcun feed-back.
Inoltre, gli zuccheri alimentari, e il fruttosio in particolare, hanno la capacità di promuovere la sintesi de novo di acidi grassi liberi [16] e la conseguente produzione di grassi di accumulo, oltre che di sottoprodotti metabolici come il lattato o l’acido urico, capaci a loro volta produrre stress ossidativo e infiammazione [17]. Un altro fenomeno legato all’eccesso di fruttosio è la glicosilazione avanzata, con liberazione di prodotti metabolici tossici, prevalentemente proteine  glicosilate, il cui accumulo è associato allo stress ossidativo e all’infiammazione [18]. Inoltre, una dieta ricca di fruttosio e saccarosio induce stress ossidativo nel reticolo endoplasmatico delle cellule intestinali, portando a un “allentamento” delle giunzioni strette fra gli enterociti e quindi a un aumento della permeabilità intestinale, con conseguente disregolazione immunologica [19].
Anche il glucosio, sebbene sia essenziale per una corretta funzione immunitaria, ad alte dosi ha un effetto deleterio sulle stesse cellule immunitarie [20], in quanto fattore scatenante del citochine pro-infiammatorie. Nonostante i diversi percorsi metabolici, fruttosio e glucosio sembrano quindi essere ugualmente coinvolti nei fenomeni proinfiammatori.
È interessante notare che gli zuccheri aggiunti provenienti dalle bevande edulcorate, indipendentemente dalla loro natura, sono stati associati a una maggiore presenza di marcatori infiammatori e a un maggiore picco glicemico rispetto a quello generato dagli zuccheri presenti negli alimenti [21]. E’ noto da tempo che gli zuccheri raffinati e con indice glicemico elevato (tipicamente presenti nelle comuni bevande edulcorate) sono associati allo stress ossidativo, all’attivazione di vari percorsi pro-infiammatori e ai marcatori infiammatori elevati (come la proteina C reattiva). Al contrario, i carboidrati a basso indice glicemico (complessi e da fonti integrali) sono associati a una diminuzione del livello di indici infiammatori [22].

Anche i grassi alimentari hanno effetti pro-infiammatori. È stato dimostrato che gli acidi grassi saturi (SFA) sono associati all’infiammazione attraverso diverse vie: in particolare, l’attivazione di recettori di membrana coinvolti nella risposta immunitaria innata, la produzione di ceramide (particolari molecole lipidiche della membrana cellulare) e la formazione di grosse strutture lipidiche. Una dieta ricca di grassi è peraltro associata a un elevato passaggio di lipopolisaccaride batterico (LPS) attraverso la parete intestinale. Il LPS può attraversare la barriera intestinale attraverso vie transcellulari  (chilomicroni, assorbimento lipidico) o vie paracellulari come avviene nell’intestino permeabile [23]. Una dieta ricca di grassi può portare, fra gli altri effetti, all’accumulo intracellulare di acido palmitico che genera la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il rilascio di proteine pro-infiammatorie. Allo stesso modo, gli acidi grassi trans, che provengono principalmente da grassi idrogenati dei cibi industriali e dalla cottura prolungata degli oli vegetali, sono associati all’attivazione di vie pro-infiammatorie e all’aumento di marcatori come la proteina C reattiva [24]. Infine, due parole su omega 6 e omega 3: gli acidi grassi polinsaturi n-6, i cosiddetti omega-6, sono precursori delle prostaglandine e leucotrieni, molecole essenziali per l’insorgenza dell’infiammazione. Al contrario, gli omega-3, hanno proprietà antinfiammatorie e sono i precursori di mediatori dello “spegnimento” del processo infiammatorio. Un elevato rapporto n-6/n-3, tipico delle diete occidentali, contribuisce al mantenimento e all’amplificazione del quadro infiammatorio [25 , 26, 27].

Dieta e permeabilità intestinale
Fondamentale per il nostro sistema immunitario risulta essere l’integrità della parete intestinale, che si basa, in particolare, sui seguenti fattori: lo spessore del muco intestinale (barriera fisica che protegge gli enterociti) e l’integrità delle giunzioni strette. Quando questa barriera è danneggiata (intestino permeabile) si verifica il passaggio di endotossine o PAMP (Pathogen Associated Molecular Patterns, come l’LPS) nel tessuto sottoepiteliale e nel flusso sanguigno sottostante, il che porta a infiammazione locale e sistemica [28, 29].
Il microbiota intestinale è definito dai microrganismi (principalmente batteri) che sono ospitati e vivono in simbiosi nel nostro tratto intestinale. La biodiversità e l’abbondanza del microbiota sono protettive per la nostra salute: alcune specie batteriche possono aumentare (tra gli altri benefici) lo spessore del muco intestinale, promuovere la funzionalità e l’aumento delle giunzioni strette, oltre al rilascio di acidi grassi corti (SCFA) – acetato, propionato e butirrato. Questi prodotti metabolici hanno un ruolo trofico per gli enterociti (soprattutto il butirrato), in quanto migliorano la funzione di barriera intestinale, favoriscono l’espressione delle giunzioni strette ed esprimono proprietà antinfiammatorie [30, 31, 32].
La disbiosi intestinale, definita come disequilibrio batterico sia qualitativo che quantitativo, si verifica con maggiore frequenza negli individui anziani; questa evenienza è coerente con il fatto che l’invecchiamento è legato all’infiammazione cronica, o “inflammaging”, considerata un fattore di rischio per varie malattie [33]. La composizione del microbiota è fortemente influenzata anche dall’assunzione alimentare: una dieta ricca di fruttosio porta a disbiosi con una riduzione dei batteri produttori di butirrato e aumento di batteri Gram-negativi, portatori di LPS [34, 35].
Ma di cosa si nutrono i nostri batteri?
La fibra alimentare derivata da alimenti di origine vegetale è il principale substrato del microbiota intestinale, modulando la diversità e l’abbondanza delle specie batteriche: il ruolo protettivo di una dieta ricca di fibre per la salute generale e l’integrità intestinale è ben documentato [36]. Al contrario, il basso apporto di fibre, caratteristico della dieta occidentale, è stato associato alla disbiosi, all’alterazione della permeabilità intestinale e alla successiva infiammazione di basso grado [37].

Dieta e neurogenerazione
L’alimentazione occidentale con il suo apporto infiammatorio è associata a disturbi dell’umore, del sonno e dell’ansia, condizioni che danneggiano la permeabilità intestinale e a lungo andare diventano fattori di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche e neurodegenerative [38]
Nei modelli animali, gli studi hanno dimostrato che gli stress (psicologici, fisici o sociali) portano a un aumento della permeabilità intestinale. Attraverso la produzione di cortisolo, lo stress provoca un aumento della disponibilità di nutrienti, acqua ed elettroliti (incluso il sodio) che possono aiutare l’organismo a far fronte al presunto “pericolo”. A causa della connessione umorale (ad esempio attraverso catecolamine, cortisolo) e nervosa (fibre nervose simpatiche adrenergiche) tra l’intestino e il cervello, l’aumentata disponibilità di acidi grassi può contribuire ad aumentare la permeabilità intestinale, consentendo il trasferimento di endotossine con l’innesco successivo di un’infiammazione di basso grado [39].
Di recente è stato stabilita una forte connessione tra disturbi del sonno e infiammazione sistemica di basso grado, mediata da una serie di percorsi organici e sistemici interconnessi. Questi includono disregolazione immunitaria, squilibri ormonali e alterazioni metaboliche. I disturbi cronici del sonno sono infatti collegati a livelli elevati di marcatori infiammatori come PCR, interleuchina-6 (IL-6), fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e all’aumento di cortisolo [40].

Conclusioni
La menopausa è un periodo critico nella vita di una donna che si estende ben oltre l’invecchiamento riproduttivo, comprendendo profondi cambiamenti ormonali, metabolici e neurobiologici. Nuove evidenze sottolineano il ruolo dell’infiammazione cronica di basso grado come filo conduttore che la menopausa a una maggiore suscettibilità a varie patologie, compresi depressione maggiore e a malattie neurodegenerative. I comportamenti alimentari, in particolare l’adozione di un modello alimentare occidentale, possono esacerbare questo stato infiammatorio, contribuendo alla disregolazione metabolica e alterando l’asse intestino-cervello. Questi fattori combinati possono, nel tempo, compromettere la funzione cognitiva e la salute mentale.
Ad oggi lo stile di vita rappresenta ancora e sempre di più il fattore preventivo più potente, oltre che più economico.
Nei prossimi articoli vedremo nel dettaglio il ruolo dell’alimentazione prevalentemente vegetale e a basso impatto infiammatorio.

 

*Entrambi i questionari contengono criteri di disturbo dell’umore e del sonno e di compromissione cognitiva.

Bibliografia

La colite non è un male necessario

Nel mio lavoro di nutrizionista, molto spazio e molto tempo vengono regolarmente occupati dall’attenzione alla funzionalità intestinale, poiché è noto quanto dalla salute del nostro secondo cervello dipenda quella dell’intero organismo e quanto il lavoro preventivo attraverso il cibo passi proprio dalla fisiologia di questa parte del nostro corpo, considerata così poco nobile eppure tanto importante. “Convivo con la colite da sempre!” è una frase che ho sentito pronunciare molte volte e che dà l’idea della rassegnazione con la quale le persone che soffrono di questo disturbo affrontano il disagio quotidiano dell’alvo irregolare. Sia colpa dei dolori, del gonfiore, della stipsi o della diarrea, il disturbo finisce per condizionare la qualità della vita, influenzando l’umore e le attività quotidiane.  Esistono diversi tipi di colite: infettiva, da agenti chimici, nervosa, da antibiotici, ulcerosa. La forma più frequente è rappresentata dalla sindrome dell’intestino irritabile (IBSIrritable Bowel Syndrome, nota anche come colite spastica),  un processo infiammatorio che colpisce circa il 20% della popolazione e che riguarda il colon o parte di esso. I sintomi più frequenti della IBS sono dolori addominali, gonfiore, scariche diarroiche alternate a periodi di stitichezza ostinata. In genere, si osserva l’alternarsi di periodi di remissione e periodi di acuzie e, nonostante non si tratti di una malattia grave, la sua frequenza e la sintomatologia fastidiosa ne fanno una delle patologie dalle conseguenze socio-sanitarie piuttosto considerevoli. Proprio per questo è importante sapere che, dopo la diagnosi di IBS effettuata dal medico specialista, con un piano alimentare adeguato e personalizzato e una particolare attenzione all’equilibrio della componente batterica intestinale è possibile alleviare la sintomatologia, allungare i periodi di remissione e rendere la qualità della vita decisamente migliore. Importantissima, in questo senso, è l’anamnesi che il nutrizionista effettua durante il primo incontro, in quanto l’attività del colon, e dell’intestino tutto, è influenzata, oltre che da fattori generali e accidentali, anche e soprattutto da fattori individuali, fra i quali quelli genetici, alimentari, stressogeni ed emozionali. Ricordiamo, infatti, che l’intestino rappresenta galtl’interfaccia che il nostro organismo interpone fra l’esterno e l’interno: ogni cibo di cui ci nutriamo fa parte dell’ambiente esterno fino a quando non viene assorbito nelle sue singole parti. Inoltre, questa interfaccia è davvero molto complessa dal punto di vista anatomo-funzionale, ricca com’è di tessuto atto all’assorbimento, terminazioni nervose, cellule immunitarie, tessuto neuro-endocrino e componente batterica. Quest’ultima, come è già stato detto in altri articoli di questo blog, rappresenta un vero e proprio organismo nell’organismo, costituendo quello che ormai conosciamo con il nome di microbiota intestinale. Questa ricchezza anatomo-funzionale pone l’intestino al centro di una vasta gamma di funzioni, oltre a quella più nota e comunemente ricordata, dell’assorbimento dei principi nutritivi. Da quest’organo partono infatti stimoli  e segnali neuro-endocrini che regolano l’appetito e la sazietà, il sonno e la veglia, l’umore, la capacità di gestire lo stress. Grazie alla componente immunitaria, continuamente sollecitata e “allenata” dal microbiota in equilibrio, l’intestino si trova al centro delle reazioni di difesa e prevenzione riguardo a molte patologie, non solo infettive. Sempre alla componente batterica dobbiamo anche la produzione di particolari sostanze protettive derivate dalla fermentazione di alcuni componenti alimentari. Alla luce di queste osservazioni, che peraltro mettono in risalto solo alcune delle molteplici funzioni dell’intestino, risulta comprensibile il motivo per cui se l’equilibrio di questo complesso sistema si altera le conseguenze sul nostro benessere sono macroscopiche e considerevoli. Risulterà chiaro quindi che adeguarsi a certi sintomi non solo significa rassegnarsi a sopportare quel fastidioso stato di cose, ma esporre il nostro organismo a deficit e rischi che a lungo termine possono esacerbare patologie più importanti di una semplice colite. E’ il cibo, come spesso accade, la prima vera terapia; esso però, una volta individuato, bilanciato e scelto attraverso un’accurata valutazione dei fabbisogni, dei gusti e della composizione corporea, deve essere supportato e accompagnato da un lavoro attento sulla popolazione batterica che non può e non deve essere considerata come presenza generica e comune, ma come preziosa connotazione personale, un’impronta che ci distingue, che guida e gestisce il nostro modo di compensare, sopperire e reagire. Anche il lavoro sulle emozioni e sulla loro gestione, sullo stress e sulla capacità di farvi fronte, rappresenta spesso una strada parallela auspicabile. La parola d’ordine, comunque, è ancora una volta “personalizzazione”, poiché ognuno di noi è unico. Anche all’interno!

 

 

 

 

 

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Riflessioni sulla biodiversità

ElenaRicci018Le interazioni che gli individui biologicamente diversi esercitano reciprocamente nell’ambito dello stesso ambiente sono fondamentali per la loro sopravvivenza e per gli equilibri del loro stesso habitat. Per questo, la salvaguardia di specie diverse, sia in ambiente terrestre che acquatico, rappresenta una garanzia di salute dell’intero ecosistema da cui tutti noi esseri viventi dipendiamo e alle cui dinamiche contribuiamo.
A chi si occupa di alimentazione, il termine biodiversità fa pensare spontaneamente all’immensa varietà di alimenti, soprattutto ortaggi, legumi, cereali e frutti di cui fortunatamente godiamo nel nostro paese. Ma, una riflessione più profonda, alla luce delle recenti scoperte sull’ecosistema che popola il nostro intestino supportando e coadiuvandone molte delle sue funzione fisiologiche, conduce a molti risvolti interessanti. Intrecciando l’indicazione, nota a tutti, riguardo la necessità di una dieta più che mai variata e la consapevolezza che tale varietà si rifletta in un maggiore equilibro del microbiota intestinale, si configurano due sistemi biodiversi strettamente connessi, seppure così fisicamente lontani: uno nei campi che producono cibo, l’altro all’interno del nostro intestino. Le nuove tecnologie di cui la ricerca scientifica si avvale hanno prodotto dati molto interessanti relativi ai ceppi batterici qualitativamente e quantitativamente diversi che popolano il nostro intestino: sappiamo, ad esempio, che dalla loro salute e dal loro equilibrio dipendono le nostre risposte immunitarie, gli assorbimenti alimentari, l’equilibrio fame-sazietà e persino l’umore. È nota l’influenza che il microbiota intestinale ha sulla regolazione del peso corporeo, sull’insorgenza e sull’andamento di alcune patologie metaboliche, autoimmuni e tumorali. D’altra parte, la ricchezza e la varietà in nutrienti e non nutrienti (fibra) di un frutto e di un ortaggio garantiscono gli equilibri e il corretto funzionamento di questo importante organismo nell’organismo.
cropped-prevenzione.jpgNegli ultimi dieci anni, l’attenzione della comunità scientifica si è rivolta a un altro tipo di biodiversità, al fine di comprenderla e preservarla: quella del suolo, ricco di forme di vita (da microrganismi a piccoli mammiferi) numerose e diversificate, che contribuiscono a mantenere fertili e in salute i terreni, immagazzinare e filtrare l’acqua, arricchire e mantenere le catene alimentari, contenere i cambiamenti climatici, produrre antibiotici naturali.  Produzioni agricole “pulite” e sostenibili garantiscono questa biodiversità sommersa, producendo cibo sano e nutriente, la cui biodiversità alimenta e sostiene quella interna del nostro organismo, in modo particolare del nostro intestino.
Il pensiero del suolo e dell’intestino, dei numerosissimi, minuscoli eroi invisibili che vivono sotto i nostri piedi e in una parte dell’organismo considerata poco nobile, induce un’ulteriore riflessione: ciò che non vediamo spesso è fondamentale alla nostra sopravvivenza e alla nostra salute. Per questo è importante averne consapevolezza e prendersene cura.

Scritto per Dimensione Agricoltura di giugno 2017

Il supporto nutrizionale nelle patologie intestinali croniche

intestino_1_60451Mi capita spesso di supportare pazienti con patologie intestinali croniche ai quali viene spesso dichiarata, in sede di diagnosi e di controllo periodico, l’irrisoria
influenza, se non addirittura l’inutilità, di un particolare piano alimentare e di particolari accorgimenti riguardo alla scelta dei cibi. Detto e sottolineato che si tratta di malattie che hanno bisogno di trattamenti farmacologici adeguati, la cosa mi sorprende ogni volta, poiché credo che, visti gli studi numerosi e accreditati sulle relazioni alimenti-microbiota e microbiota-sistema immunitario, considerare il cibo privo di conseguenze, o di valore preventivo, su un quadro infiammatorio con sede intestinale sia quantomeno limitativo. L’attenzione alla dieta è invece necessaria, nonsolo per i motivi appena accennati, ma anche per sopperire ad eventuali carenze nutrizionali cui questi pazienti possono andare incontro a causa di malassorbimento o di evitamento di cibi e pietanze percepiti come dannosi.
Ma facciamo un passo indietro e capiamo cosa e quali sono le malattie croniche dell’intestino,  (“IBD“, inflammatory bowel disease). Esse comprendono la malattia di Crohn e la rettocolite ulcerosa. In Italia circa 200.000 persone siano oggi affette da queste patologie, con un numero di nuove diagnosi negli ultimi 10 anni, incrementato di 20 volte. L’esordio, in genere, avviene in un’ampia fascia d’età, fra i 15 e i 45 anni, con la stessa frequenza in entrambi i sessi. Non si tratta di patologie ereditarie, ma è stata riscontrata una tendenza alla predisposizione familiare. L’andamento di entrambe le IBD è cronico (cioè non vi è una risoluzione definitiva) e ricorrente, con periodi alternati di fasi a cute e fasi di remissione.  In entrambe le patologie, il sintomo ricorrente è la diearrea che, nel morbo di Crohn è accompagnata da importante dolore addominale, mentre nella rettocolite ulcerosa da perdite rettali di sangue e muco, oltre che dalla sensazione di insufficiente svuotamento alle evacuazioni. Entrambe sono dette “idiopatiche”, ovvero a causa sconosciuta. La reazione infiammatoria cronica cheSchermata 2017-02-22 alle 12.12.08
si instaura è causata probabilmente da una reazione abnorme del sistema immunitario verso componenti del tessuto intestinali o ceppi batterici in esso presenti. Alla luce di studi importanti sul microbiota intestinale e sulle sue ampie implicazioni sulle risposte immunitarie dell’individuo, è
 ragionevole ipotizzare che intestino1alcuni fattori associati allo sviluppo di IBD possano essere rappresentati da sollecitazioni eccessive o effetti negativi sul microbiota. I fattori ambientali che possono alterarne la composizione comprendono la dieta, l’uso di antibiotici e l’area geografica. La nota “ipotesi dell’igiene” suggerisce che gli esseri umani che vivono nei paesi più industrializzati sono esposti sin dalla primissima infanzia a un minor numero di microbi che porta allo sviluppo di un sistema immunitario meno in grado di “tollerare” l’esposizione all’ambiente microbico in età avanzata. Questo può attivare in modo inappropriato le risposte immunitarie. In linea con questo concetto, è importante valutare, da caso a caso, il ruolo dell’alimentazione e, nei casi in cui se ne prospetti la necessità, dell’integrazione mirata di componenti pro-microbiota, batteriche e non (probiotici e prebiotici). E’ stato visto altresì che una dieta troppo ricca di grassi e proteine animali e ​​povera di fibre può alterare il microbiota intestinale e aumentare il rischio per lo sviluppo di IBD. Sebbene, anche l’eccesso di fibra e di altre sostanze come polioli, polialcol e e di oligosaccaridi può rappresentare un fattore irritante e scatenante. In ogni caso, la situazione di scompenso nota come disbiosi intestinale è attualmente considerata un possibile fattore eziologico nella patogenesi di queste malattie. I progressi tecnologici che oggi consentono una caratterizzazione più completa delle comunità microbiche intestinali, insieme a recenti studi che mostrano quanto sia importante l’impatto della dieta sulla microbiota, forniscono un forte razionale per ulteriori indagini approfondite sul legame fra cibo, microbiota e sviluppo di IBD . Pertanto, mirare a regolarizzare i pasti, moderare il consumo di alimenti di origine animale, fornire all’intestino sostanze antinfiammatorie naturali, attraverso la scelta di alimenti adeguati e/o di prodotti di integrazione (attentamente valutati da un esperto) sarebbe auspicabile in ogni caso, poiché la salute e l’equilibrio del microbiota intestinale garantiscono migliori risposte immunitarie e assorbimenti più adeguati.
Nella mia pratica, più di una volta ho piacevolmente constatato quanto un piano alimentare ben studiato e plasmato sulle esigenze e i gusti del paziente, dinamico e passibile di aggiustamenti in initere, possa migliorarne la qualità della vita di questi pazienti.

 

 

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Dimagrimento e microbiota intestinale.

Fino a qualche decennio fa se qualcuno avesse messo in relazione il peso corporeo con la fisiologia intestinale, probabilmente, sarebbe stato considerato un folle visionario. Una parte così poco nobile del nostro corpo può influenzare il metabolismo e l’effetto delle sue disfunzionalità? Lo avremmo chiesto in tanti, magari senza nascondere un pizzico di scetticismo. Eppure, oggi, nessuno si scandalizza sentendo parlare delle influenze che il secondo cervello può esercitare su molte funzioni del nostro organismo. È ormai noto, infatti, che il metabolismo riceve molti segnali regolatori dall’intestino e, in particolare, che la composizione batterica del microbiota, ovvero l’ecosistema batterico che lo popola, può giocare un ruolo importante nell’instaurarsi dell’obesità e di altre patologie, metaboliche e non.
Recentemente innumerevoli evidenze hanno dimostrato come e in quale misura il microbiota intestinale può contribuite all’instaurarsi di patologie quali sindrome metabolica, insulino-resistenza, obesità e diabete di tipo II. In particolare, esso pare strettamente legato agli assorbimenti, al bilancio energetico, all’omeostasi del glucosio e al grado di infiammazione sistemica legata all’obesità. Esperimenti su campioni fecali umani hanno evidenziato la presenza preponderante di particolari phyla batterici nei profili genetici microbici degli obesi. L’ecologia microbica intestinale e il grasso corporeo negli esseri umani è infatti legato a una minore presenza di Bacteroidetes e a una maggiore presenza di Firmicutes, caratterizzati – questi ultimi – da una maggiore capacità rispetto ad altri batteri di metabolizzare carboidrati non digeribili per estrarne energia. La perdita di peso è legata a una riduzione di Firmicutes, una maggiore presenza di Bacteroidetes e in generale una maggiore biodiversità microbica. Queste importanti modificazioni sono facilitate, supportate e mantenute da uno stile di vita sano e un’alimentazione ricca di prebiotici, ovvero di componenti alimentari necessari a nutrire e mantenere in salute il microbiota.
La letteratura scientifica, quindi, indica una strada possibile e percorribile nel trattamento dell’obesità e del sovrappeso: stile di vita sano, dieta adeguata, microbiota a posto!

Grafico peso
BMII grafici riportati di seguito sono relativi a un percorso di dimagrimento in una mia paziente obesa di 47 anni, che, oltre a cambiare le sue abitudini alimentari attenendosi a un piano dietetico aderente ai suoi gusti ma tendente alla riduzione di picchi glicemici e al maggiore consumo di fibra ,  frutto-oligosaccaridi e galatto-oligo-saccaridi, ha iniziato un protocollo di ripopolamento e mantenimento del microbiota intestinale, a base di particolari ceppi di Lactobacilli e Bifidobatteri. Quest’ultimo strumento ha portato a una maggiore regolarità intestinale e ha coadiuvato la perdita di peso, anche in presenza di una scarsa attività fisica. Ma la cosa che più colpisce in questo percorso, iniziato da nove settimane, è la modificazione del gusto e della richiesta alimentare quotidiana: la signora, infatti, non sente più la necessità di zuccheri semplici e ha ridotto spontaneamente le porzioni delle pietanze, in quanto più sazia e più gratificata dalle nuove sensazioni di benessere che il percorso le procura.

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Per approfondire:
1475-2859-10-S1-S10
ismej2011212a
http://www.eufic.org/article/it/artid/The_role_of_gut_microorganisms_in_human_health/