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Ruolo extra scheletrico della vitamina D. Uno sguardo sulle patologie metaboliche e cardiovascolari

Il ruolo e gli effetti extra scheletrici della vitamina D sono noti ormai da almeno un decennio. Nel 2023 è uscita un’interessante revisione relativa alla relazione fra questa sostanza e le basi molecolari delle patologie metaboliche e cardiovascolari. In particolare, il lavoro, peraltro a firma di ricercatori italiani, raccoglie dati e osservazioni provenienti dai numerosi studi epidemiologici e osservazionali relativi al rapporto fra vitamina D e citochine pro- e anti- infiammatorie che influenzano l’azione dell’insulina, il metabolismo lipidico e le funzioni del tessuto adiposo .
Eccone una sintesi ragionata, con i link alla bibliografia più importante e alcuni approfondimenti.

Vitamina D

  1. La vit. D è un pro-ormone liposolubile sintetizzato attraverso un fenomeno di fotolisi del precursore 7-deidrocolesterolo indotta dai raggi UV assimilabile dagli alimenti che ne sono ricchi [pesci grassi (25 microg/100 g), tuorlo dell’uovo, olio di fegato di merluzzo (210 microg/100g), alimenti fortificati]. Quando vi è un’adeguata esposizione alla luce solare, l’organismo è in grado di sintetizzare la vit. D per coprire i suoi fabbisogni. Se non si ha l’occasione o l’abitudine di esporsi regolarmente al sole, è necessario acquisire vit. D dagli alimenti.

    Una volta acquisita o prodotta, la vit. D deve subire due reazioni di idrossilazione, la prima delle quali avviene nel fegato a cui arriva attraverso il circolo sanguigno, legata a una proteina di trasporto (vit D binding protein, DBP). Da questa prima idrossilazione deriva la 25-idrossivitamina D (25-OH-D) che, trasportata da DBP ai tubuli renali, subisce la seconda idrossilazione.Ne deriva 1,25 – diidrossivitamina D (1,25-(OH)2- D), cioè la forma attiva della vit. D.

Effetti scheletrici: agendo in sinergia con l’ormone paratiroideo (PTH), è responsabile della regolazione della calcemia, promuovendo il riassorbimento intestinale di calcio e contribuendo così a una mineralizzazione ossea adeguata.

Effetti extra-scheletrici: data la presenza in vari tessuti di recettori ed enzimi idrossilanti, la vit. D ha effetti pleiotropici, in particolare ormonali, antinfiammatori, antiapoptotici, antifibrotici, antiossidanti e immunomodulatori. Fra questi effetti, sono centrali e importanti, quelli sul metabolismo lipidico e glucidico, in particolare quelli sulla resistenza insulinica che si esplicano attraverso la riduzione dell’espressione di alcune citochine infiammatorie, come l’interleuchina-1 (IL-1) [1, 2, 3]

Vit. D e insulino-resistenza (IR)

Fonte L’Endocrinologo (2022) 23:380–385 https://doi.org/10.1007/s40619-022-01131-3

L’insulino resistenza è una condizione basata sull’alterazione del processo di trasduzione del segnale dell’insulina, per cui concentrazioni di normali o aumentate dell’ormone producono un effetto biologico attenuato. L’IR si manifesta con un quadro clinico variabile, noto come sindrome da insulino-resistenza, che include alterazioni metaboliche, obesità viscerale, danno d’organo e associazione con altre patologie: sindrome dell’ovaio policistico, sindrome metabolica, sindrome delle apnee ostruttive del sonno, malattie neurodegenerative, persino patologie neoplastiche.
E’ stata dimostrata la relazione inversa fra la carenza di vit. D e l’indice HOMA-IR, utilizzato per quantificare la resistenza all’insulina e la funzione delle cellule beta del pancreas. Un’adeguata integrazione riduce l’IR e i livelli circolanti di insulina. La correlazione inversa fra HOMA-IR e IR diventa più forte con l’aumentare dell’Indice di Massa Corporea (IMC).
Al centro di questa relazione così importante (vit. D – RI) ci sono fondamentalmente tre fattori: 1) i recettori per l’insulina; 2) la produzione di citochine proinfiammatorie; 3) i polimorfismi dei recettori della vit. D (VDR) espressi a livello di beta-cellule pancreatiche.

  1. Recettori per l’isulina: la vit. D migliora la sensibilità insulinica aumentando l’espressione del recettore a livello muscolare, epatico e adiposo. Inoltre, promuove la conversione della proinsulina in insulina [4].
  2. Citochine proinfiammatorie: la carenza di vit. D aumenta l’espressione di citochine proinfiammatorie che, nei pazienti con IMC alto e molto alto, possono rappresentare la causa dell’IR. L’obesità, infatti, è associata all’ipovitaminosi D a causa di una minore esposizione alla luce solare comune in queste persone, di uno scarso apporto con l’alimentazione e per l’elevata secrezione di leptina (dal greco leptos = magro, è un ormone di natura proteica principalmente secreto dalle cellule del tessuto adiposo e rappresenta una componente fondamentale nel circuito omeostatico della regolazione del peso corporeo). Gli studi suggeriscono che alti dosaggi di vit. D possono ridurre i livelli circolanti di leptina e l’IR nei pazienti con obesità. Questo effetto sembra legato al legame della vit. D ai suoi recettori nel nucleo paraventricolare ipotalamico, regione che modula l’appetito e la sazietà [4].
  3. Recettori pancreatici VDR: la funzione della beta-cellule pancreatiche può essere influenzata direttamente dalla vit. D attraverso il suo legame con VDR che attiva la produzione di insulina. D’altra parte, la secrezione di insulina dipende strettamente anche dai livelli di calcio: la vit. D legandosi ai suoi recettori pancreatici sollecita l’ingresso di questo ione delle beta-cellule [4, 5, 6]

Vit. D e diabete mellito di tipo 2 (DMT2)

Il DMT2 è una patologia metabolica cronica caratterizzata da una inadeguata produzione di insulina e dal conseguente innalzamento dei livelli di glucosio ematici. Costituisce un fattore di rischio importante per patologie cardiovascolari e per complicanze come malattia retinica, ictus, infarto, insufficienza renale. In molti casi, la diagnosi di DMT2 è preceduta da una fase caratterizzata da livelli di glucosio nel sangue superiori alla norma, ma non così elevati da determinare un diabete conclamato e da elevati livelli di insulina circolante. In tutto il mondo moltissime persone presentano una condizione cosiddetta pre-diabetica senza esserne consapevoli: secondo l’OMS ne soffrono 762 milioni. La condizione di prediabete e quella di diabete conclamato sono strettamente connessi all’obesità (anche se in alcuni casi si può assistere a queste alterazioni metaboliche in persone normopeso o lievemente sovrappeso).
La carenza di vit. D è associata alla condizione di prediabete e alle complicanze micro e macrovascolari secondarie al DMT2.

Una recente metanalisi evidenzia come l’integrazione di vit. D aumenti la sensibilità all’insulina e migliori l’omeostasi glucidica, oltre che attraverso i meccanismi sopracitati, anche attraverso la modulazione dei livelli di paratormone e gli effetti di citochine antinfiammatorie [7].
In accordo con lo Studio prospettico sul diabete nel Regno Unito (UKPDS) i parametro d’elezione per valutare le modificazioni a lungo termine della glicemia è l’emoglobina glicata (HbA1c). Sia l’UKPDS che ulteriori importanti studi indicano come l’integrazione di vit. D possa ridurre i livelli di HbA1c come riflesso alla riduzione di IR [8, 9].
A livello di tessuto adiposo, la vit. D può ridurre lo stato infiammatorio. Sebbene fegato e reni siano i più ampiamente riconosciuti siti del metabolismo della vit. D, anche gli adipociti possiedono la capacità di metabolizzarla. Molti studi in vitro che utilizzano linee cellulari umane di preadipociti sottocutanei e cellule staminali mesenchimali hanno dimostrato, infatti, che la vit. D modula la differenziazione dei preadipociti in adipociti maturi e agisce a diversi livelli per modulare l’infiammazione adiposa [10].
Per quanto riguarda il tessuto muscolare, sappiamo nella fase post-prandiale, esso smaltisce il 70-90% del glucosio circolante, e che livelli adeguati di vit. D sono coinvolti nel miglioramento di questo meccanismo muscolare [11, 12, 13].
E’ stato dimostrato che la carenza di vit. D può essere coinvolta nelle complicanze microvascolari e macrovascolari, come la retinopatia diabetica e l’aterosclerosi periferica e carotidea. L’effetto diretto della vit. D sul tono vascolare riduce inoltre l’afflusso di calcio ai vari tessuti [14,15].
Il livello di vit. D è inoltre legato in modo inverso alla pressione arteriosa. Un importante studio del 2021 suggerisce che i livelli sierici di vit. D sono indipendentemente associati a valori di pressione arteriosa alta e al rischio di ipertensione incidente in una popolazione di mezza età . Oltre alla correlazione negativa tra livelli di vit. D e pressione arteriosa in soggetti non ipertesi, lo sviluppo di ipertensione in pazienti con pressione arteriosa normale in un follow-up di 8 anni è un risultato sorprendente [16]. Tuttavia saranno necessari ulteriori studi di popolazione con un ampio numero di pazienti per valutare il ruolo dell’integrazione e/o dei livelli sierici di vit. D nel prevenire o ritardare lo sviluppo di ipertensione nei pazienti pre-ipertesi.
Uno studio più datato suggerisce che le proprietà antipertensive e protettive dei metaboliti della vit. D sono da attribuire all’inibizione della sintesi della renina da parte della 1,25(OH)2D nel rene [17].

Vit. D e diabete mellito di tipo 1 (DMT1)

Il DMT1 è una patologia autoimmune in cui il sistema immunitario distrugge le beta-cellule del pancreas che producono insulina, portando a una carenza o assenza di questo ormone. La prevalenza di questa patologia è aumentata progressivamente negli ultimi decenni nella maggior parte dei paesi (dai un’occhiata all’epidemiologia).
Le conoscenze attuali indicano che la vit. D potrebbe avere un ruolo positivo nella prevenzione di altre patologie autoimmuni concomitanti e di complicanze gravi. Essa infatti svolge una funzione importante nello sviluppo dell’autotolleranza. Questa relazione è dovuta alla presenza di recettori VDR in tutto il corpo e l coinvolgimento della vit. D nella modulazione dello stato infiammatorio: tala scoperta ha notevolmente ampliato gli studi sugli effetti extra-scheletrici di questa sostanza [18]. Si tratta infatti di una caratteristica molto interessante nel caso del DMT1, in quanto nel pancreas di pazienti affetti da questa patologia è presente un infiltrato infiammatorio composto da linfociti T e B e da macrofagi, cellule bersaglio della vit. D. E’ stato visto che nei modelli animali di DMT1 alte dosi di vit. D contengono e arrestano la progressione infiammatoria, come indicato dalla riduzione quantitativa di linfociti T effettrici e l’attivazione di cell. T regolatrici [19, 20, 21].

Vit. D e diabete mellito gestazionale (DMG)

Il DMG è la condizione clinica più frequente in gravidanza ed è caratterizzato da una intolleranza al glucosio con iperglicemia (qui trovi una descrizione completa e accessibile anche ai non addetti ai lavori).
Una delle modificazioni fisiologiche in gravidanza riguarda proprio il metabolismo della vit. D: i suoi livelli aumentano all’inizio della gravidanza e raggiungono i valori più alti nel terzo trimestre (2-3 volte maggiori rispetto allo stato pre-gravidico) [22]. Tra i fattori che possono svolgere un ruolo nell’insorgenza del DMG vi è l’infiammazione cronica di basso grado [23, 24]: in questo contesto può agire positivamente un buon livello di vit. D . E’ stato visto che bassi livelli di vit. D innescano risposte infiammatorie attraverso la via del nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells (NF-kB), un complesso proteico che agisce come fattore di trascrizione, fondamentale per la risposta delle cellule a stimoli come infiammazione, infezioni, stress e danni cellulari. Inoltre, bassi livelli di vit. D sono legati a un aumento della specie reattive dell’ossigeno (ROS) nelle beta-cellule pancreatiche che ne provocano la morte [25].
In questo processo infiammatorio sono coinvolti anche alcuni geni protettivi inattivati dal processo di ipermetilazione. E’ stato dimostrato che la vit. D è protettiva nei confronti di queste modificazioni genetiche [26], oltre che nei confronti dell’eccessivo aumento di peso [27], altro fattore di rischio per DMG.
Una interessante metanalisi fa il punto sugli studi condotti negli ultimi anni riguardo agli effetti dell’integrazione di vit. D in gravidanza, sottolineando come questa migliori i livelli di lipidi nel sangue di pazienti con diabete gestazionale e riduca gli esiti avversi nei neonati [28]. Questi dati sono in accordo con numerosi studi precedenti [29].

(Per una lettura tecnica su classificazione e diagnosi di DM, puoi leggere questo)

Vit. D e sindrome metabolica (MetS) e malattie cardiovascolari (CV)

(immagine modificata)

Secondo la recente definizione dell’OMS, del National Cholesterol Education Program (NCEP) Adult Tratment Panel III (ATP III) e dell’Internatione Diabetes Federation (IDF), con il termine Sindrome Metabolica si indica un insieme di alterazioni anatomiche e biochimiche caratteristiche: aumento della circonferenza vita, aumento dei trigliceridi, bassi livelli di colesterolo HDL, elevata glicemia, elevata pressione arteriosa ([30]. Gli individui che mostrano queste caratteristiche sono ad alto rischio di contrarre malattie cardiovascolari e DMT2.
E’ stato visto che la carenza di vit. D è un fattore di rischio per la MetS [31], in quanto, in ragione dell’ubiquità dei recettori VDR, la sua presenza induce protezione ossidativa attraverso sistemi antiossidanti come la glutatione perossidasi e la superossido dismutasi, oltre che attraverso l’inibizioni di specie reattive dell’ossigeno [32, 33]. Inoltre, la vit. D risulta essere un regolatore trascrizionale diretto della sintesi endoteliale di ossido nitrico (NO) [molecola con funzioni anti-trombolitiche, anti-infiammatorie, protegge dall’aggregazione piastrinica e dall’adesione dei globuli bianchi alle pareti vascolari, prevenendo la formazione di coaguli e l’aterosclerosi] [34]. Nonostante l’associazione fra livelli di vit. D e MetS sia controversa per la mancanza di studi longitudinali prospettici, vi sono sufficienti studi per considerare i benefici di una integrazione di vit. D [35, 36, 37].
I meccanismi che sottostanno a questa correlazione potrebbero essere diversi, alcuni dei quali già accennati, come la correlazione inversa fra livelli circolanti di vit. D e obesità addominale (con conseguente aumento di citochine infiammatorie). Poiché questo pre-ormone è liposolubile e viene sequestrato-immagazzinato nel grasso di riserva, è intuitivo che le persone con sovrappeso e obesità abbiano bassi livelli circolanti di vit. D.
In sintesi, ecco cosa ricordare rispetto al ruolo della vit. D nella MetS:
1) protezione antiinfiammatoria endoteliale;
2) modulazione dell’IR e protezione dal DMT2 e DMG;
3) effetto ipotensivo;
4) prevenzione dell’ipoparatiroidismo;
5) aumento della lipolisi e inibizione della lipogenesi.

Molti studi indicano che l’integrazione di vit. D ha effetti positivi su diversi aspetti della MetS: in particolare sul miglioramento del profilo lipidico, sulla IR, sulla proteina C reattiva (PCR), sulla modulazione della glicemia a digiuno.
Qui troverai una tabella relativa agli studi sull’integrazione e i suoi effetti sulle patologie analizzate. Queste invece sono le ultime linee guida relative all’integrazione per prevenire l’oseoporosi; dai anche un’occhiata alle raccomandazioni relative all’assunzione nelle varie fasce d’età.

Per completezza, mi sembra importante aggiungere un’altra tessera a questo mosaico così interessante e complesso. Una quantità crescente di studi ha valutato gli effetti della vitamina D sul microbiota intestinale soprattutto nel campo delle  malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI), condizioni multifattoriali in cui la disbiosi gioca un ruolo di primo piano nell’innesco e mantenimento delle lesioni [38].  Bassi livelli di vit. D in pazienti affetti da queste patologie e, soprattutto, la relazione dei livelli sierici con l’attività di malattia, il rischio di recidiva, le risposte alle terapie o il loro fallimento alle terapie hanno determinato un crescente interesse sul possibile ruolo nella patogenesi delle MICI. Studi su modelli sperimentali suggeriscono da una parte che modifiche epigenetiche indotte dall’infiammazione intestinale possano ridurre l’espressione del gene codificante il recettore nucleare della vitamina D [39] e, dall’altra, che la via di segnale vit. D/VDR possa regolare diversi fattori coinvolti nell’infiammazione intestinale [40, 41]. In particolare, la vit. D sembrerebbe influenzare l’integrità della barriera intestinale modulando l’espressione di componenti delle giunzioni strette e aderenti e favorendo il rilascio di peptidi antimicrobici (catelicidine, beta-defensine) da parte delle cellule di Paneth e di mucine, esercitando un effetto immunomodulante sia inibendo il rilascio di citochine pro-infiammatorie, sia favorendo il rilascio di quelle antinfiammatorie e l’induzione di linfociti T regolatori [42].
Importante è anche la relazione inversa, cioè l’effetto che la somministrazione di probiotici può produrre sull’assorbimento e quindi sulla disponibilità della vitamina D. Un chiaro esempio è fornito dal miglioramento degli assorbimenti nella contaminazione batterica dell’intestino tenue in cui per cause diverse si verifica una sovraccrescita/contaminazione della flora intestinale per via discendente o ascendente. Le cause più comuni sono: l’insufficiente secrezione di succo gastrica (da terapia cronica con prazoli, da gastrite atrofica autoimmune o da interventi chirurgici), le alterazioni della motilità (soprattutto in corso di diabete, malattie autoimmuni sistemiche come la sclerodermia, diverticolosi, stenosi, by-pass intestinali) e della valvola ileo-ciecale (da malattia di Crohn o interventi chirurgici) [43].

Formazione di ac. grassi a catena corta, fra cui il butirrato. Fonte: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37422149

Tuttavia esistono ancora poche evidenze relative all’utilità dell’ntegrazione probiotica in questo contesto [44, 45, 46, 47].
Vale la pena sottolineare la possibile interazione funzionale tra microbiota residente e/o probiotici e il VDR. In modelli animali di colite, infatti, l’azione antinfiammatoria del butirrato potrebbe essere connessa all’aumentata espressione genica del VDR indotta dallo stesso composto [48].

 

 

 

 

Conclusioni

La corposa mole di studi e dati derivati indica l’importanza del ruolo protettivo della vit. D nell’eziogenesi di patologie metaboliche, autoimmuni e intestinali. Le sue funzioni extra-scheletriche sono ben documentate da tempo, pertanto il monitoraggio e l’eventuale integrazione sono ritenuti indispensabili al fine di migliorare sia la salute scheletrica che quella metabolica e prevenire patologie connesse alla carenza vitaminica D.

 

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In un sorso d’acqua

acqua-ionizzataPensando all’acqua, soprattutto in questa stagione, viene in mente il suo potere idratante e dissetante. In effetti, si tratta di un componente importantissimo del nostro organismo, rappresentando circa il 60% del peso corporeo nell’adulto e circa il 75% di quello del neonato. È il solvente ottimale per molte sostanze, regola la temperatura corporea, favorisce tutti i processi metabolici e consente l’eliminazione di sostanze tossiche e di quelle di scarto prodotte durante i processi metabolici. Sempre più frequentemente viene posta attenzione alla scelta dell’acqua rispetto agli elementi in essa disciolti. In Italia abbiamo una classificazione piuttosto chiara e semplice: si parla di acque oligominerali se il contenuto di sali disciolti è minore di 500 mg/l, e mediominerali quando la contrazione dei soluti è compresa fra 500 e 1500 mg/l, ad alta mineralizzazione per concentrazione di soluti > 1500 mg/l. I minerali in essa disciolti sono altamente biodisponibili, nel senso che il nostro intestino li assorbe con facilità. Per il calcio, ad esempio, è stato visto che un’acqua con un livello minerale intorno a 200 mg/litro ne consente un livello di assorbimento ottimale: un’informazione importante che permette di integrare questo elemento senza abbondare troppo con alimenti animali che potrebbero portare a un eccesso di grassi e proteine.  Anche altri importanti minerali, come il magnesio e il potassio possono essere assorbiti dall’acqua che beviamo ogni giorno, purché ovviamente la quantità sia adeguata. Il fabbisogno minimo d’acqua per ognuno di noi dipende da condizioni ambientali, attività fisica, età. In generale, per un uomo adulto sano di 70 Kg l’apporto adeguato è di 2,5 l al giorno. Ci sono categorie di persone e fasi della vita in cui l’apporto deve aumentare: e il caso degli sportivi e le donne in gravidanza e in allattamento.
Oltre che di minerali, molte acque sono ricche di bicarbonati che hanno un effetto positivo sulla motilità intestinale e le capacità digestive, migliorando fenomeni di stipsi e cattiva digestione.
Quindi, in definitiva, l’acqua è da considerarsi più un alimento funzionale che una semplice bevanda e pertanto è raccomandabile un consumo adeguato a ogni età, con particolare attenzione ai bambini e ai ragazzi che troppo spesso la preferiscono ad altre bevande, soprattutto edulcorate, privandosi dei suoi importanti benefici e assumendo calorie in eccesso.

 

Scritto per Dimensione Agricoltura di luglio-agosto 2017.
Immagine tratta dalla rete.

Il supporto nutrizionale nelle patologie intestinali croniche

intestino_1_60451Mi capita spesso di supportare pazienti con patologie intestinali croniche ai quali viene spesso dichiarata, in sede di diagnosi e di controllo periodico, l’irrisoria
influenza, se non addirittura l’inutilità, di un particolare piano alimentare e di particolari accorgimenti riguardo alla scelta dei cibi. Detto e sottolineato che si tratta di malattie che hanno bisogno di trattamenti farmacologici adeguati, la cosa mi sorprende ogni volta, poiché credo che, visti gli studi numerosi e accreditati sulle relazioni alimenti-microbiota e microbiota-sistema immunitario, considerare il cibo privo di conseguenze, o di valore preventivo, su un quadro infiammatorio con sede intestinale sia quantomeno limitativo. L’attenzione alla dieta è invece necessaria, nonsolo per i motivi appena accennati, ma anche per sopperire ad eventuali carenze nutrizionali cui questi pazienti possono andare incontro a causa di malassorbimento o di evitamento di cibi e pietanze percepiti come dannosi.
Ma facciamo un passo indietro e capiamo cosa e quali sono le malattie croniche dell’intestino,  (“IBD“, inflammatory bowel disease). Esse comprendono la malattia di Crohn e la rettocolite ulcerosa. In Italia circa 200.000 persone siano oggi affette da queste patologie, con un numero di nuove diagnosi negli ultimi 10 anni, incrementato di 20 volte. L’esordio, in genere, avviene in un’ampia fascia d’età, fra i 15 e i 45 anni, con la stessa frequenza in entrambi i sessi. Non si tratta di patologie ereditarie, ma è stata riscontrata una tendenza alla predisposizione familiare. L’andamento di entrambe le IBD è cronico (cioè non vi è una risoluzione definitiva) e ricorrente, con periodi alternati di fasi a cute e fasi di remissione.  In entrambe le patologie, il sintomo ricorrente è la diearrea che, nel morbo di Crohn è accompagnata da importante dolore addominale, mentre nella rettocolite ulcerosa da perdite rettali di sangue e muco, oltre che dalla sensazione di insufficiente svuotamento alle evacuazioni. Entrambe sono dette “idiopatiche”, ovvero a causa sconosciuta. La reazione infiammatoria cronica cheSchermata 2017-02-22 alle 12.12.08
si instaura è causata probabilmente da una reazione abnorme del sistema immunitario verso componenti del tessuto intestinali o ceppi batterici in esso presenti. Alla luce di studi importanti sul microbiota intestinale e sulle sue ampie implicazioni sulle risposte immunitarie dell’individuo, è
 ragionevole ipotizzare che intestino1alcuni fattori associati allo sviluppo di IBD possano essere rappresentati da sollecitazioni eccessive o effetti negativi sul microbiota. I fattori ambientali che possono alterarne la composizione comprendono la dieta, l’uso di antibiotici e l’area geografica. La nota “ipotesi dell’igiene” suggerisce che gli esseri umani che vivono nei paesi più industrializzati sono esposti sin dalla primissima infanzia a un minor numero di microbi che porta allo sviluppo di un sistema immunitario meno in grado di “tollerare” l’esposizione all’ambiente microbico in età avanzata. Questo può attivare in modo inappropriato le risposte immunitarie. In linea con questo concetto, è importante valutare, da caso a caso, il ruolo dell’alimentazione e, nei casi in cui se ne prospetti la necessità, dell’integrazione mirata di componenti pro-microbiota, batteriche e non (probiotici e prebiotici). E’ stato visto altresì che una dieta troppo ricca di grassi e proteine animali e ​​povera di fibre può alterare il microbiota intestinale e aumentare il rischio per lo sviluppo di IBD. Sebbene, anche l’eccesso di fibra e di altre sostanze come polioli, polialcol e e di oligosaccaridi può rappresentare un fattore irritante e scatenante. In ogni caso, la situazione di scompenso nota come disbiosi intestinale è attualmente considerata un possibile fattore eziologico nella patogenesi di queste malattie. I progressi tecnologici che oggi consentono una caratterizzazione più completa delle comunità microbiche intestinali, insieme a recenti studi che mostrano quanto sia importante l’impatto della dieta sulla microbiota, forniscono un forte razionale per ulteriori indagini approfondite sul legame fra cibo, microbiota e sviluppo di IBD . Pertanto, mirare a regolarizzare i pasti, moderare il consumo di alimenti di origine animale, fornire all’intestino sostanze antinfiammatorie naturali, attraverso la scelta di alimenti adeguati e/o di prodotti di integrazione (attentamente valutati da un esperto) sarebbe auspicabile in ogni caso, poiché la salute e l’equilibrio del microbiota intestinale garantiscono migliori risposte immunitarie e assorbimenti più adeguati.
Nella mia pratica, più di una volta ho piacevolmente constatato quanto un piano alimentare ben studiato e plasmato sulle esigenze e i gusti del paziente, dinamico e passibile di aggiustamenti in initere, possa migliorarne la qualità della vita di questi pazienti.

 

 

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Integrazione nutri-culturale

DSCN6549I modelli alimentari e le tradizioni culinarie fanno parte del patrimonio culturale di ogni individuo, così come le sue origini e il suo linguaggio. La storia ci insegna che il cibo identifica ma, necessariamente, differenzia. In caso di emigrazione, di fatto, lo stile alimentare è l’ultimo a modificarsi, ma anche ad essere compreso e accettato.

Gli ostacoli ad una integrazione alimentare fra popoli di cultura diversa ha radici lontane e si basa fondamentalmente sulla estrema difficoltà nel cambiare i propri gusti. La cucina tradizionale, legata per definizione al territorio e alla sua storia, permea il palato, diviene omologante in quel dato contesto collettivo, rendendo in genere diffidenti, insofferenti o indifferenti nei confronti di altri sapori. Il cibo, dunque, non è facilmente trasferibile da una cultura all’altra.

Tuttavia, a mio avviso, esistono delle eccezioni, una agli antipodi dell’altra, che demoliscono barriere culturali e diventano insospettabili strumenti di integrazione.

La prima è rappresentata dal Modello Alimentare Mediterraneo (MAM), che si distingue per equilibrio e completezza, è preventivo nei confronti di malattie metaboliche e cardiovascolari ed in realtà rappresenta una cultura, un modus vivendi, che va al di là del semplice atto di nutrirsi. Esso origina dalla cultura greca e le invasioni che si sono succedute nel corso della storia hanno apportato, alle abitudini alimentari pregresse, novità e cibi insoliti che sono stati integrati nel tempo divenendo, a tutti gli effetti, parte delle nostre abitudini alimentari. Ne sono un esempio il pomodoro dall’america latina, molte spezie, introdotte dai romani con i primi viaggi in terre da conquistare, usate nel medioevo europeo per conservare i cibi, e che presto divennero quasi uno status simbol che differenziava le tavole dei ricchi da quelle dei poveri. È il modello alimentare che ci identifica, nato dalle scelte parsimoniose delle nostre campagne e teorizzato dal biologo Ancel Keys negli anni ’40 del secolo scorso. Il Mediterraneo, ovvero tutte le popolazioni che ad esso si affacciano, ha condiviso, pur nella sua eterogeneità di culture e civiltà, pur nella sua varietà di metodologie culinarie, l’importanza dell’alimentazione quale elemento strettamente connesso all’uso del territorio e all’impatto di questo uso sul paesaggio agricolo, selvatico ed urbano.

Un’altra eccezione, capace di demolire barriere culturali in modo più potente e pregnante della prima è la globalizzazione alimentare, ovvero ciò che alcuni studiosi chiamano genericamente col nome di macdonaldizzazione, volendo significare la standardizzazione estrema dei prodotti alimentari che conduce ad una ristorazione completamente integrata di un numero sempre crescente di persone. Con l’industrializzazione del settore alimentare, almeno nel mondo occidentale, si assiste ormai da diversi anni all’abbattimento di barriere culturali, superando persino la naturale diffidenza che il cibo nuovo ed “estraneo” suscita fisiologicamente. La familiarità e l’accondiscendenza che ogni cibo doveva prima meritarsi per essere considerato parte della propria alimentazione è stata soppiantata dalla fiducia incondizionata nel brand. La televisione ha fatto da passepartout, è entrata nelle nostre case e, in moltissimi casi, ha decretato il successo dei nuovi alimenti.

Abolendo e livellando differenze, grazie al basso costo e alla sua estrema palatabilità, il cibo industriale ha dato una forte spinta alla nascita di luoghi che forse potremmo definire trans-culturali, come le paninerie, i ritrovi McDonald’s, in cui le differenze fra popoli si attenuano, favorendo indubbiamente una sorta di socializzazione.

Tuttavia, il prezzo di questo tipo di integrazione è altissimo se pensiamo all’epidemia di obesità e di diabete che ormai preoccupa anche i paesi in via di sviluppo e che la scienza lega strettamente all’eccessivo consumo di alimenti ipercalorici, scadenti e poco nutrienti.

I sociologi, pertanto, stanno ancora studiando le dinamiche di ciò che il cibo, in tempo di pace e di guerra, in terre vicine e lontane, in epoche di immani cambiamenti e intense migrazioni, può determinare. A noi, in attesa di un qualche illuminante saggio da leggere, non resta che prendere atto della sua potenza e continuare a trattarlo con equilibrio e, soprattutto, col dovuto rispetto.