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Natura del gusto e fidelizzazione ai sapori

Un articolo di Maria Giusi Vaccaro

“In origine c’è il semplice fabbisogno alimentare e il desiderio di rispondere alle necessità del corpo nutrendosi. Le sensazioni procurate dalla sazietà, gli aromi e i sapori del cibo si trasformano allora in piacere. La memoria conserva sia le sensazioni sia il piacere, e così, successivamente, le prime saranno promessa del secondo. Fabbisogno, desiderio, piacere nascono all’interno di reti neurali che per larga parte si sovrappongono le une alle altre.”
(Il cervello goloso, Andrè Holley)

Studi di neuroscienze sulla percezione del cibo, dimostrano che mangiare risponde non solo al primitivo, indispensabile bisogno di sazietà ma soprattutto al bisogno di gustare; dalla scelta di un alimento al suo assaggio, mangiare mette in moto una serie di meccanismi cognitivi, ancestrali o nuovi, che impegna ogni area del nostro cervello. Proprio intorno al gusto e ai suoi complessi meccanismi ruota l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare a livello globale che basa le proprie politiche commerciali sul fatto che l’uomo ha trasformato il cibo da semplice strumento di sopravvivenza a raffinata fonte di piacere.
Le neuroscienze considerano il cibo come una sorta di “ricompensa naturale” al pari dell’attività sessuale e altre attività ritenute piacevoli dal cervello, innescando un comportamento di ricerca, rinforzo e ripetizione.

Scienziati e tecnologi alimentari studiano quotidianamente come accrescere l’appetibilità dei cibi proprio per sovra-stimolare i circuiti della ricompensa, della gratificazione. Un prodotto appetibile o palatabile è qualcosa che eccita il nostro gusto sovrastando ogni altra percezione, seducendo il consumatore fino a innescare una vera e propria dipendenza caratterizzata da reazioni incontrollabili e irrazionali.>
Questa manipolazione viene effettuata attraverso sofisticati calcoli matematici con l’obiettivo di farci raggiungere il BLISS POINT (termine coniato da J.L. Balintfy e applicato da H.Moskowitz), definito come il punto di massima beatitudine indotto da un alimento, oltre il quale, se ne riduce il potere di attrazione. Il “senso di gradimento sensoriale ottimale” si raggiunge con la sapiente combinazione di zuccheri, grassi e sale, i tre esaltatori del piacere in grado di procurare una sorta di estasi sensoriale, di far superare la percezione del senso di sazietà spingendo il consumatore, pervaso così da un appetito irreprimibile, a sovralimentarsi, esponendosi al rischio di un aumento ponderale nel breve termine e allo sviluppo di disturbi metabolici e psicologici più gravi nel lungo termine.

La sinergia edonica di zucchero-grasso-sale, ci porta a reiterare gli acquisti, dovuti alla dipendenza da certi sapori – legata più alle sollecitazioni artificiali che non alle caratteristiche autentiche dell’alimento. Sollecitazioni studiate per generare un piacere multisensiorale, in modi pervicaci e in tempi rapidissimi. Ne derivano, un’alterazione del palato e un’omologazione del gusto e dei desideri dei consumatori, sempre più abituati a prodotti dolci, salati e ricchi di grassi. Queste errate abitudini alimentari rischiano di produrre quella che viene definita disgeusia collettiva o distorsione del senso del gusto.
Dolce, grasso e salato incrementano nettamente le preferenze alimentari che vanno dal piacere al desiderio compulsivo. La scelta tra gli scaffali avviene in base alle proprie aspettative sul gusto e sulla sensazione che si proverà nel percepirli, oltre ai segnali di piacere che il cervello produrrà come ricompensa per aver scelto i cibi più gustosi.
Il gusto, l’aroma e la soddisfazione nonché l’attrattiva sensoriale (si mangia con tutti i sensi, soprattutto con gli occhi), prevalgono ancora sugli aspetti nutrizionali.

Ma cos’è il gusto?

Ne “Il cervello goloso” A. Holley scrive che per l’opinione comune non è il gusto propriamente detto a essere coinvolto nella scelta di un cibo, ma l’olfatto, che ci permette di percepire le sostanze volatili contenute nei grassi di consistenza cremosa. Quest’ultima, si traduce in quella sensazione tattile di cui è responsabile il nervo trigemino che ci gratifica con la consistenza vellutata del cioccolato, con la croccantezza del pollo fritto o con la cremosità del formaggio (vedi articolo ospitato in questo blog).
ll gusto è uno dei cinque sensi dell’essere umano, che viene riconosciuto grazie alla presenza sulla lingua di quattro tipologie differenti di papille gustative, al cui interno, si trovano i bottoni gustativi. Questi, portano al loro apice i recettori del gusto e trasmettono poi i segnali al cervello.
L’ attivazione delle papille gustative inizia durante la 30° settimana di gestazione, quando il liquido amniotico e le sue variazioni chimiche causate dalla dieta materna, possono stimolare i recettori gustativi fetali. Questa attivazione precoce, appare come un primo passo nello sviluppo della memoria sensoriale gustativa, che modellerà la preferenza per i vari gusti, influenzando così le scelte alimentari del futuro neonato e bambino. Lo sviluppo delle preferenze individuali per alcuni alimenti rispetto ad altri, è un processo complesso che coinvolge sia fattori motivazionali che comportamentali, insieme ad aspetti genetici specifici. (pubmed)
Oggi è noto che i recettori del gusto non sono confinati nella lingua ma sono espressi anche in altre parti  della bocca e in maniera predominante in tutto l’apparato gastrointestinale, attraverso cellule epiteliali sensoriali intestinali specializzate che stabiliscono una connessione tra intestino e cervello (pubmed).
La Scienza ha ufficialmente riconosciuto sei gusti dell’apparato gustativo umano: dolce, amaro, salato, acido, umami e grasso, suddividendo la popolazione in supertaster o super gustatori (25%), normal taster (50%) e non taster (25%) in base alla diversa capacità di percezione degli stessi (Linda Bartoshuk,2000). La variazione nel gusto più studiata è l’abilità di gustare un preparato particolarmente amaro, il propiltiouracile (PROP).La sensibilità al PROP è associata a una sensibilità più spiccata al gusto in generale e a un maggior numero di papille gustative sulla lingua( https://www.sciencedirect.com/).  Le combinazioni e le quantità di queste sei percezioni producono i sapori sperimentati, con l’aiuto delle informazioni olfattive e delle sensazioni somato-sensoriali provenienti dalla bocca.

Ma il gusto è associato anche a importanti funzioni fisiologiche ed evolutive.

Il gusto dolce è caratterizzato da cibi ricchi di carboidrati semplici come lo zucchero (saccarosio), un composto organico costituito da una molecola di glucosio e una di fruttosio. E’ innato in tutti i mammiferi, poiché gli zuccheri indicano in maniera affidabile un alto livello di energia, rappresentando quindi uno strumento adattativo essenziale per la sopravvivenza dell’organismo.

L’innata predilezione per il gusto dolce e la propensione a scegliere alimenti dolci sono ben sviluppate fin dalla nascita, determinate anche dalla presenza di specifici recettori e fattori genetici (polimorfismo del gene tasirR) (pubmed) e può essere rafforzato o modificato dall’offerta e dalla disponibilità del cibo, oltre che da influenze familiari e culturali anche prima dell’infanzia (pubmed; pubmed).

“La voglia di dolce persiste anche quando siamo sazi, il che spiega probabilmente perché il dessert compaia a fine pasto. Essere golosi di cibi ricchi di zuccheri, è un ottimo adattamento evolutivo per un onnivoro, il cui grande encefalo richiede un’enorme quantità di glucosio (unica fonte di energia utilizzabile dal cervello) o perlomeno era la strategia giusta un tempo, quando la possibilità di ingerire dolci rappresentava un’eccezione e non la regola.“
(Michael Pollan-Il dilemma dell’onnivoro )

Cosa dire del sapore amaro?
“L’amaro sulla lingua ci invita alla cautela, per evitare che un veleno vada oltre quelle che Brillant-Savarin chiama le fedeli sentinelle del gusto” (Il dilemma dell’onnivoro).
Dal punto di vista evolutivo, il gusto amaro viene associato a sostanze tossiche, come gli alcaloidi o a cibi degradati (pubmed). Pensiamo alle donne che durante la gravidanza sono particolarmente sensibili all’amaro, probabilmente come adattamento per proteggere il feto anche dalle tossine più blande, come ad esempio quelle dei broccoli (Brassica oleracea). L’associazione dell’amaro a sostanze pericolose dimostra, ancora una volta, come il gusto sia legato alla sopravvivenza, oltre che al piacere: la capacità di percepire i sapori primari si sarebbe selezionata nel corso dell’evoluzione per distinguere gli alimenti utili da quelli dannosi.

Il gusto acido non è dovuto a ingredienti specifici, come per il dolce o il salato, ma è legato al pH dei cibi quando questo è inferiore a 7. Per la sua percezione però è fondamentale anche il rapporto con lo zucchero. Questa interazione è molto importante ai fini sensoriali, in quanto saccarosio, glucosio e fruttosio sono in grado di contrastare la percezione del gusto acido e rendere più accettabile il sapore dell’alimento. Motivo per cui il miele, alimento di natura acida, non viene percepito come aspro.
L’acidità inoltre, bilancia la sensazione di grasso, contrasta l’ossidazione, mantiene vivi i colori e ci avverte che i cibi potrebbero essere avariati.

Il salato è un gusto innato e attraente, prodotto dal sale o cloruro di sodio (NaCl). E’ essenziale per la vita poiché mantiene l’equilibrio salino dei fluidi corporei, un retaggio della discendenza acquatica dei mammiferi. Ma migliora anche gli odori, i sapori, minimizza l’amaro e bilancia il dolce. Un odore e un sapore appresi, migliorati dal sale, diventano irresistibili.

Nel saggio “La rivoluzione nel piatto”, Sabrina Giannini racconta che, secondo il giornalista Premio Pulitzer Michael Moss, la Cargill, industria americana leader mondiale nella produzione di sale, sta lavorando per cambiare la forma fisica del sale, polverizzandolo in modo che colpisca più rapidamente le papille gustative per esaltare il flavor brust, l’esplosione di sapore.

Il gusto umami deriva dal glutammato monosodico, ovvero il sale di sodio dell’acido glutammico, l’amminoacido più abbondante in natura. E’ un gusto più sfumato rispetto agli altri e segnala la presenza di derivati delle proteine, nutrienti essenziali per il benessere. Il termine umami vuol dire saporito, esalta il gusto, la piacevolezza e la palatabilità del cibo. In natura è presente nei funghi, nelle carni, nel pesce e nel latte materno. Nella nostra cucina si trova nel parmigiano reggiano stagionato, nei dadi per il brodo o nella salsa di soia.

E il gusto dei grassi?

Alcuni recenti studi sostengono che all’elenco ristretto dei gusti percepiti, vada aggiunto anche quello specifico del grasso, l’oleogusto. I meccanismi del suo rilevamento sono ancora poco noti e meritano ricerche più approfondite. Studi recenti come quello dei ricercatori della Washington University School of Medicine di St.Louis (Missouri), hanno identificato i recettori gustativi specializzati per il grasso, regolati dal gene polifunzionale CD36 (CD sta per Cluster Differentiation, una codificazione internazionale nel campo dell’immunologia) localizzato nel braccio lungo del comosoma 7 (Journal of Lipid Research). Ma la strada da fare per comprendere appieno la chimica di questa specifica percezione gustativa è ancora lunga.
Intanto, come ci racconta “La Rivoluzione nel piatto” di Sabrina Giannini, che nel 1990 Adam Drewnowski, uno tra i più autorevoli studiosi del grasso nella dieta alimentare, ha capito che per il grasso non vi sia il bliss point. Non esiste, quindi, un livello di concentrazione ottimale oltre il quale un’ulteriore aggiunta riduce il potere di attrazione dell’alimento. Infatti, nel caso dei grassi, gli esperimenti hanno dimostrato che il cervello li gradisce senza conoscere misura; non lancia segnali di allarme soprattutto quando sono mescolati allo zucchero, che riducendone la percezione, li rende “meno visibili” al cervello e di conseguenza, un ingrediente assai insidioso. Nelle vostre esperienze culinarie, vi eravate mai accorti di questa “trappola del grasso”?

I gusti innati possono essere quindi amplificati dalle esperienze che facciamo intorno al cibo e dalle relazioni che instauriamo con esso. Pensate ad esempio al disgusto iniziale che può dare una bevanda amara quando siamo abituati a consumarla zuccherata.  Questo fenomeno prende il nome di oversizing ovvero il sovradimensionamento di ciò che è innato.
Le multinazionali sfruttano questi processi per aumentare le loro vendite ma ne sono anche schiave. Infatti, lo zucchero come ingrediente non si limita ad addolcire ma sostituisce ingredienti più costosi, aggiungendo volume e consistenza. Il sale, che ha un costo relativamente basso, aumenta il fascino dei cibi industriali, è un ottimo conservante e un ottimo dissimulatore dell’aroma di riscaldato tipico della carne precotta nei pasti pronti. Il grasso stimola l’iperalimentazione, aumenta la palatabilità e maschera sapori sgradevoli come il metallico causato dalla lavorazione. Tutti concorrono al prolungamento della scadenza dei prodotti. Il risultato finale è caratterizzato da prodotti progettati per regalarci l’illusione di una dieta diversificata, per indurre un “effetto gola” assicurato. Piatti belli da vedere, invitanti dal punto di vista sensoriale ma di scarso valore nutritivo, qualitativamente scadenti e tali da aumentare l’incidenza di patologie cronico-degenerative.

Come possiamo difenderci da questo fenomeno così presente e invasivo?

Per comprendere la differenza di un gusto artefatto e uno naturale, l’Accademia di Nutrizione Culinaria e Cucina Antiaging, ci invita a fare una semplice esperienza sensoriale confrontando l’assaggio di un pesto alla genovese industriale e uno fatto in casa. Il primo – che tra gli ingredienti riporterà anche il siero di latte in polvere (zucchero nascosto) – darà una percezione del gusto immediata, in “altezza”, che ecciterà le papille gustative ma sarà di breve durata e non collegato alle proprietà nutritive del prodotto. Il secondo, darà una percezione del gusto in “lunghezza”, molto più persistente, che esalterà il sapore del vero ingrediente del pesto: il basilico. L’obiettivo deve essere quello di valorizzare il gusto degli alimenti naturali in maniera sana e bilanciata, garanzia di una cucina più nobile in grado di apportare sia benefici psicologici che fisiologici senza l’aggiunta di componenti nocivi per la salute (https://academy.cucinaevolution.it/).

Gustare e riconoscere il cibo del piacere deve associarsi quindi a un’esperienza di qualità e non a una scelta rapida e sbrigativa indotta da un’abile ricerca industriale.

Le neuroscienze ci insegnano che il sistema cerebrale umano del sapore è dotato di plasticità – particolarmente notevole nei neonati e nei bambini piccoli (pubmed), grazie a un elevato tasso di turnover cellulare. Questo processo permette, in seguito all’esposizione ripetuta a uno stimolo gustativo, di aumentarne la sensibilità. Possiamo quindi abituare e riabituare il cervello alla preferenza per il cibo genuino e costruire un giusto equilibrio tra il piacere e l’alimentazione giornaliera (sulla riabilitazione sensoriale, puoi approfondire qui). Quanto più a lungo si consumano cibi sani, migliore sarà il sapore che verrà percepito dai nostri sensi successivamente (pubmed).
È tempo di tornare al sapore autentico dei cibi. E’ tempo di tornare al gusto vero.

 

Maria Giusi Vaccaro è laureanda in Scienze Biologiche e appassionata di neurogastronomia. Ha conseguito un Master in Nutrizione culinaria e Cucina antiaging (Art Joins Nutrition Academy).

 

Immagine di G. D’Urso

Sindrome dell’intestino irritabile – collaborazioni

Oggi il blog ospita un articolo scritto insieme al dott. Antonio Di Presa, osteopata. L’argomento è la Sindrome dell’intestino irritabile. 
Buona lettura!

In una situazione mondiale dove l’aspettativa di vita va sempre più allungandosi, aumentano vertiginosamente i disturbi di tipo cronico a cui diventa necessario far fronte, e tra questi, molti ricadono a livello dell’apparato gastro-intestinale.

img: thawkwardyeti.com

Una delle situazioni più difficili da gestire è la sindrome dell’intestino irritabile (IBS, o Irritable Bowel Syndrome).

Questo articolo, scritto a 4 mani con la dott.ssa D’Urso, nasce quindi dalla necessità di dare informazioni affidabili su questo complesso argomento, peraltro mai abbastanza conosciuto.

Istruzioni per l’uso

Trattandosi di un approfondimento piuttosto lungo (tempo di lettura: 10 minuti), vorrei riassumere qui i punti chiave per tutte quelle persone che vorrebbero saperne di più, ma non hanno del tempo da dedicare a questo tema:

  • La sindrome dell’intestino irritabile, la cui causa è ancora dibattuta, è diffusissima e mal gestita;
  • Spesso i sintomi hanno un forte impatto sulla qualità di vita della persona affetta;
  • È possibile migliorare lo stato delle persone con IBS attraverso una dieta ed una integrazione probiotica adeguata;
  • Studi molto promettenti vedono nell’osteopatia un valido complemento per alleviare i sintomi da IBS.

Fine.

Soddisfatti? No? Allora, l’articolo per intero è quello che fa per voi. Buona lettura!

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“Guida per cervelli affamati”, un viaggio attraverso l’atto alimentare

Ci sono libri che riescono a parlare in modo semplice di faccende molto complesse. “Guida per cervelli affamati” di Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi, uscito a novembre del 2021 per Il Saggiatore, è uno di questi.
Incuriositi, e forse anche inteneriti, dall’immagine in copertina, ci si ritrova immersi sin dalle prime pagine in un’atmosfera che sa di retaggi e strumenti antichi, come l’importanza dell’utilizzo del fuoco per la cottura dei cibi e i recenti studi di neurologia sulla predilezione del cervello umano per i cibi cotti. L’apporto delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti alimentari, umani e non solo, rappresenta il filo conduttore di tutto il saggio. Dal dilemma dell’onnivoro alla diffidenza dei nostri bambini per le verdure, le autrici forniscono informazioni preziose, sotto forma di racconto interessante e accessibile anche ai non addetti ai lavori, sugli aspetti più misteriosi e complessi di un atto che ci accomuna tutti: la scelta alimentare. E lo fanno accompagnandoci in un magnifico viaggio: dagli studi di Gordon Shepherd sulle percezioni gustative, per arrivare ai più recenti dati sul cibo del futuro, a base di larve di insetti, oppure prodotto con bio-coltivazioni in laboratorio e stampanti 3D. Lo fanno senza trascurare i tempi e i luoghi da cui veniamo e i motivi per cui siamo ciò che siamo.

Il viaggio consta di cinque parti, cinque percorsi ognuno dei quali offre l’occasione di comprendere i meccanismi neurologici dei nostri comportamenti, oltre che di scoprire luoghi e modi in cui il cibo e l’atto alimentare assumono valenze diverse da quelle che già conosciamo.

Nella prima parte, “Koala, gorilla e fast food. Breve storia di un’evoluzione culinaria”, le autrici affrontano il tema dell’evoluzione della scelta alimentare. E lo fanno raccontando, attraverso gli studi di antropologi e neuroscienziati riguardo ai cambiamenti alimentari nel tempo, come siamo diventati ciò che siamo, in seguito a cambiamenti epocali come la scoperta del fuoco, la domesticazione animale e la coltivazione della terra. Interessante, il tema dell’onnivorismo, già trattato da Michael Pollan e Jonathan Silvertown, e qui ripreso, con i suoi vantaggi evolutivi e le ataviche insicurezze che ancora oggi reca con sé. Così come il legame fra la dis-regolazione di alcuni circuiti cerebrali con i quali distinguiamo il cibo da sostanze non commestibili e il rischio di sviluppare particolari disturbi del comportamento alimentare (picacismo).

Immagine di pag. 93 – Aree cerebrali coinvolte nei comportamenti alimentari umani)

Proseguendo la lettura, le autrici ci conducono nei territori biologici della scelta alimentare, in cui “Tutte le strade portano al cervello”, come recita il titolo del capitolo di apertura della seconda parte. In queste terre misteriose, corrispondenti ad aree cerebrali e a sostanze come ormoni e neurotrasmettitori, si consumano le diatribe quotidiane delle scelte, delle preferenze e dei disgusti che caratterizzano il comportamento alimentare umano. Così apprendiamo che l’insula, parte della corteccia posta profondamente fra lobo temporale e lobo frontale, è l’aera che risponde al gusto dei cibi ingeriti. E che la corteccia orbitofrontale, zona chiave nei meccanismi di ricompensa, risponde con stimoli appropriati durante il pasto fino alla sazietà, in cui invece silenzia la propria attività. Scopriamo che l’apparato gastro intestinale non è solo un recipiente in cui avviene la digestione del cibo ingerito e l’assorbimento dei nutrienti che lo compongono, ma anche un importante interlocutore che instaura con specifiche aree del cervello un dialogo serrato fatto di messaggi che regolano fame, sazietà, gusto, disgusto, gratificazione sensoriale. Tutti questi meccanismi si intrecciano e si integrano con quelli messi in atto dal microbiota intestinale che, come un organismo nell’organismo, lavora regolando assorbimenti, producendo molecole protettive, contribuendo alla sintesi di neurormoni e sollecitando il sistema immunitario.
Sulla regolazione della preferenza gustativa, a partire dai primi esperimenti di Ivan Pavlov sull’apprendimento associativo per arrivare a quelli più recenti, condotti con tecniche di Risonanza Magnetica Funzionale e eye tracking, apprendiamo la presenza di mappe funzionali che regolano le risposte oculari davanti ad alcuni cibi particolarmente graditi o sgraditi e che la risposta pupillare degli individui appartenenti al campione esaminato è in relazione con il loro Indice di Massa Corporea.

Nella parte terza ci si addentra ancora di più nell’ambito della percezione sensoriale e si scopre che l’assaporamento è un fenomeno complesso che coinvolge ognuno dei nostri sensi. Le autrici parlano del gusto come un senso dai superpoteri per indicarne l’organizzazione neurobiologica composita. Ci svelano infatti come ognuno dei nostri organi di senso contribuisce alla definizione e modulazione dei vari sapori e come questi processi vengono organizzati da precise aree cerebrali, restituendoci sensazioni che per noi sono automatiche: la sazietà, il gradimento, l’appagamento, il disgusto, la curiosità. Questi studi hanno promosso un nuovo tipo di gastronomia basata sul coinvolgimento di sensazioni visive, tattili, uditive per esaltare l’assaporamento di determinate pietanze. Così a Shanghai si può gustare un menù fisso di ventidue portate nel ristorante multisensoriale dello chef Paul Pairet: i commensali gustano le portate in una atmosfera che varia costantemente accompagnando la degustazione con diverse sollecitazioni visive, olfattive e uditive. Oppure è possibile gustare un dessert dalle sembianze di spugna con tanto di schiuma, a Senigallia, nel ristorante dello chef Moreno Cedroni: un’esperienza sensoriale davvero originale e spiazzante.

Un altro aspetto interessante affrontato da “Guida per cervelli affamati” è l’interazione fra il condizionamento culturale la genetica dei comportamenti alimentari. Nel capitolo “La lunga via dei sapori”(parte quarta) le autrici raccontano come le scelte alimentari si diversifichino nelle varie popolazioni del pianeta in base a tratti genetici peculiari: nel 2010 un gruppo di scienziati coordinati dal genetista clinico Paolo Gasparini ha ripercorso il viaggio di Marco Polo per testare, attraverso campioni di saliva, la relazione fra abitudini alimentari e genetica. I risultati sono interessanti: “paese dopo paese, cultura dopo cultura, la spedizione approda poi in Kirghizistan e Kazakistan, per concludersi in Cina. Il lavoro dei ricercatori rientrati in Italia (…) non è ancora concluso”, ma grazie ai dati raccolti fin qui sono state identificate alcune varianti genetiche correlate al consumo di alcuni cibi e bevande: come, ad esempio, i geni TAS1R2 e TAS2R3 legati alla produzione di proteine coinvolte nella percezione del gusto dolce, nel gradimento della vodka e del vino bianco; oppure il gene PCLβ2, legato al gradimento del tè caldo, o il TRPV1 a una scarsa preferenza pe la barbabietola.
Gli altri capitoli della parte quarta sono dedicati ai fattori culturali e relazionali che condizionano il comportamento alimentare. E quindi leggiamo dell’influenza delle tradizioni storiche, ma anche di quelle familiari. Dei modelli collettivi, della tendenze sociali, e infine dei cambiamenti a cui ogni individuo va incontro nel corso della vita, delle neofobie infantile, della selettività estrema di certi bambini, dell’effetto della facilitazione sociale in adolescenza, dell’influenza della tecnologia sulle scelte alimentari, di certe patologie degenerative dell’anziano che portano alla compromissione delle abilità sensoriali e conseguentemente delle scelte alimentari.

Immagine pag. 278 – Pizze nello spazio

La quinta e ultima parte affronta l’importante tema della sostenibilità alimentare: dagli insetti quali cibo proteico del futuro alle bistecche artificiali e i pasti prodotti da stampanti D33 destinati ai viaggiatori spaziali che si preparano alla conquista di Marte. E’ una sezione del libro che pur parlando di futuro, viaggi interplanetari e alta tecnologia, ci riporta paradossalmente con in piedi per terra a fare i conti con la popolazione mondiale in crescita esponenziale e con l’insufficienza delle risorse alimentari. Ed è così, che ci avviamo alla fine della lettura di questo bel saggio, pensierosi per gli oltre 9 miliardi di persone previste per il 2050 e con  il sorriso sulle labbra di fronte all’immagine dell’astronauta Paolo Nespoli che gusta una pizza nello spazio insieme ai suoi compagni di viaggio.

La lettura di “Cervelli affamati” mi è piaciuta, questo lo avete capito. Soprattutto mi ha sorpreso per la sua accessibilità e per la grande quantità di informazioni e correlazioni che vi ho trovato all’interno. E’ stata, come ho accennato all’inizio, un vero e proprio viaggio che, come tale, lascia in chi legge molteplici emozioni e sensazioni su cui ritornare e di cui fare tesoro.

 

Le autrici (dal sito de Il Saggiatore)

Carol Coricelli (Milano, 1987) è ricercatrice in Neuroscienze cognitive presso la Western University of London in Canada e docente presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Sofia Erica Rossi (Milano, 1992), filosofa e neuroscienziata di formazione, si occupa di comunicazione della scienza e public engagement presso l’Ospedale San Raffaele di Milano.

 

 

 

Se siete interessati alla neurograstronomia leggete l’articolo di Maria Giusi Vaccaro

 

 

Il senso dell’olfatto domina il sapore

Un articolo di Maria Giusi Vaccaro

“Quando annusiamo, non sentiamo solo un odore, così come quando assaggiamo, non sentiamo solo un gusto. Ritroviamo ricordi, soffriamo, gioiamo, speriamo, odiamo, osserviamo. Coltiviamo aspettative e dialoghiamo con il corpo nella sua totalità. Lo leggiamo in certi romanzi, come ad esempio Alla ricerca del tempo perduto di Proust, e in certi lavori scientifici,come Il cervello goloso di André Holley che recita: “è il cervello, non la nostra riflessione cosciente, a coordinare tutti questi processi”.

Le Neuroscienze e in particolare la Neurogastronomia, stanno studiando come un gran numero di stimoli lavorino di concerto per creare l’esperienza del gusto e come il cervello riesca a creare la sensazione del sapore. Ad oggi, grazie a queste discipline, sappiamo che vi è un sistema cerebrale umano del sapore che crea percezioni, emozioni, ricordi, coscienza, linguaggi e scelte incentrate sul sapore. Assumere e gustare il cibo è quindi una questione che riguarda la di bocca e la testa. “Mangiare, è uno dei gesti più comuni e densi di significato ed è proprio mentre mangiamo che il cervello modellizza e mappa gli odori, e che con l’aiuto degli altri sensi dà letteralmente vita alla nostra percezione del gusto.”(Gordon Shepherd). È un processo molto complesso che coinvolge, nell’uomo, il maggior numero di geni, di terminazioni nervose, sensoriali e motorie, diversi muscoli e almeno sei aree del cervello: più di qualunque altra funzione umana. Evidentemente il ruolo nel garantirci la sopravvivenza è stato ed è ancora enorme.

Gli esseri umani posseggono circa 25 geni finalizzati alla percezione orale di sei gusti: dolce, salato, amaro, aspro, umami, grasso ( sesto senso insieme all’amido, essenziale per la percezione della consistenza e della palatabilità). Mentre, oltre 400 geni garantiscono la percezione di più di 10000 odori nella porzione ortonasale (adibita all’inspirazione) e retronasale (adibita all’espirazione). Tutti questi geni gustativi e olfattivi, nonché il gran numero di recettori corrispondenti, sono ampiamente variabili tra gli individui, anche nella stessa famiglia: nessuno può percepire gli stessi sapori ed alle medesime intensità di altri, eccetto i gemelli monozigoti. Ogni individuo possiede un “naso” diverso che varia a seconda delle componenti genetiche e fisiologiche, oltre che quelle psicologiche legate alle diverse esperienze nel corso della vita.

Frequentemente il cibo viene descritto in base al suo “gusto”, ma in realtà quando parliamo di gusto intendiamo dire “sapore”– come spiega Gordon Shepherd nel suo saggio “All’origine del gusto”- ovvero la percezione combinata del gusto e dell’odore. Il sapore è in gran parte dovuto all’olfatto retronasale, un meccanismo attivato dall’insieme di molecole odorose volatili nel tratto che collega la bocca alla cavità nasale. Ma cosa avviene quando assaggiamo del cibo? Sentiamo il sapore del cibo, non perché lo annusiamo, ma perché espirando emettiamo dei piccoli sbuffi di odore del cibo dal retrobocca e all’indietro attraverso le fosse nasali mentre mastichiamo e deglutiamo. Proprio perché portato dal percorso retronasale, l’odore domina il sapore. Gli odori retronasali vengono appresi e quindi sono soggetti a differenze individuali e culturali, il che spiega perché esiste una gran quantità di cucine nel mondo, e perché chiunque entri in un fast food desidera un panino diverso. Lo stesso vale per gli odori all’apparenza più sgradevoli. “Pensiamo alle analogie che sono state trovate tra l’odore dei piedi e certi tipi di formaggi: è il Camembert che puzza di piedi o sono i piedi che odorano di Camembert? Tutto dipende dalle nostre esperienze con il Camembert. La sostanza odorosa è la stessa nei due casi: il diacetile, ma il nostro cervello opera una separazione netta riguardo alla gradevolezza o meno della stessa sostanza in funzione da dove provenga.” (Prof. R. Barale, prof. ordinario di Genetica all’Università di Pisa).

Fu Brillant-Savarin a riconoscere il ruolo dominante dell’olfatto nel sapore, dichiarando con un’espressione colorita che il retrogola era il “camino del gusto”. L’olfatto retronasale si contrappone in tanti modi a quello ortonasale da poterlo considerare un tipo distinto di odorato: è la percezione degli odori che provengono dalla cavità orale durante la masticazione, per la degradazione delle molecole ad opera degli enzimi della saliva e il riscaldamento che ne aumenta la volatilità, contrariamente all’olfatto ortonasale, che si verifica durante l’ annusamento. Il senso del sapore prodotto è come un miraggio: sembra provenire dalla bocca, dove si trova il cibo, invece la parte odorosa nasce fisiologicamente dal percorso olfattivo. “La ricerca moderna ha identificato l’olfatto come un senso chimico, così come il gusto; a differenza dei sensi fisici della vista e dell’udito – che dipendono da stimolazioni come la luce o i suoni – l’olfatto si basa sulla presenza di una moltitudine di recettori sensibili a diverse sostanze chimiche. Queste sostanze  – che gli scienziati definiscono molecole odorose dei cibi – portano informazioni e si legano ai recettori delle cellule nervose olfattive presenti nella cavità nasale: le uniche cellule nervose di tutto il corpo in contatto con l’esterno.”(Guida per cervelli affamati, C. Coricelli, S. E. Rossi – Il Saggiatore, 2021. Se ne parlerà in modo dettagliato nei prossimi articoli di questo blog). Sono loro che inviano specifici segnali al cervello il quale li traduce in “ immagine ” di un gusto o di un odore. Proprio come avviene nella corteccia visiva che ci permette di distinguere istintivamente il volto umano da un volto animale, così nella corteccia gustativa o olfattiva si crea il “volto”- immagine di un gusto o di un odore. E così, nelle altre cortecce.
“Le immagini sensoriali così definite, vengono archiviate nelle rispettive aree per essere ulteriormente elaborate in immagini più complesse tramite l’interazione con altre aree cerebrali come la creazione del sapore. Infatti, il sapore non esiste di per sé, ma nasce dall’interazione tra il gusto e l’olfatto nella corteccia cerebrale (aree delle associazioni) e non solo. È, quindi, una creazione individuale del cervello, del cervello di ognuno.”(Prof. R. Barale)  Queste “immagini” rappresentano la base principale della nostra percezione dei sapori; determinano la maggior parte del piacere che traiamo dal cibarci e condividono parte della responsabilità dei problemi che si incorrono mangiando cibo non salutare.

Ma perché l’olfatto è il Re dei sensi? “Le informazioni provenienti dalle molecole odorose vengono inviate dalle cellule nervose della cavità nasale, tramite gli assoni, direttamente alla prima stazione cerebrale: il bulbo olfattivo. Il viaggio prosegue verso la corteccia olfattiva che crea l’identità e l’intensità dell’odore, l’ippocampo (struttura centrale della memoria), l’amigdala – struttura centrale del sistema limbico – per poi raggiungere la corteccia orbitofrontale, stabilendo con essa un rapporto privilegiato con la parte più nobile e evoluta del nostro cervello – che ci distingue dal resto degli animali – ove si crea la gratificazione e la piacevolezza soggettiva molto più direttamente che con gli altri sensi. Infatti, a differenza di tutte le vie sensoriali, quella olfattiva non viene filtrata dal talamo, raggiunto solo in un secondo momento. Per questo motivo la percezione iniziale degli aromi è in gran parte inconsapevole e più immediata.”(Guida per cervelli affamati).

Fra le varie intuizioni della Neurogastronomia, quella sul rapporto cibo-memoria-emozioni è particolarmente interessante. Il legame diretto con le aree limbiche, coinvolte nei processi emotivi, e con la struttura centrale della memoria, fa sì che la reazione a un certo odore possa essere influenzata dallo stato psicofisico in cui ci troviamo – come ad esempio la fame – o dai nostri ricordi, implicando la memoria sensoriale che coinvolge il “vissuto” di un individuo. Marcel Proust ha studiato e sottolineato il ruolo della memoria sensoriale e del ricordo nel condizionare le nostre sensazioni gustative: il ritorno della memoria involontaria dopo aver imbevuto nel tè una madeleine, ricorda come egli era solito mangiarne da piccolo la domenica mattina ( 1° capitolo, “La strada di Swann”). La narrazione dello scrittore francese ci riporta immediatamente alla centralità dell’olfatto: un senso arcaico, direttamente connesso alle strutture più profonde e primitive del nostro cervello legate alle emozioni e alla memoria.
Più recentemente, il ruolo dell’esperienza e della memoria nel modificare la valutazione oggettiva di un cibo, è stato ben rappresentato nel film Ratatouille della Walt Disney Pictures/Pixar Animations Studios. Il sapore, quindi, percepito a livello di coscienza, non è più soltanto la risultante dell’interazione tra gusto e olfatto, ma anche da quanto i nostri archivi di memoria di gusti e olfatto sono ricchi e articolati. Inoltre, nelle varie aree associative contigue a quelle percettive, avvengono associazioni con altri sensi, come la vista, il tatto, l’udito e con la memoria di altre percezioni emotivamente importanti. Il suono, il profumo e la presentazione visiva del cibo, ad esempio, hanno importanza quasi quanto il gusto. Pensiamo alla croccantezza di un alimento che va a stimolare i centri del piacere.
Studi attualmente in corso stanno confermando che l’olfatto umano, lungi dall’essere un senso debole  e vestigiale, è al contrario potente. Comprendere meglio il ruolo centrale svolto da questo senso può aprire le porte a nuovi approcci per ridurre i problemi legati al cibo.

 

Maria Giusi Vaccaro è laureanda in Scienze Biologiche e appassionata di neurogastronomia. Ha conseguito un Master in Nutrizione culinaria e Cucina antiaging (Art Joins Nutrition Academy).

L’epigenetica e l’obesità infantile. Capire per agire.

Immagine tratta dalla rete

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IOM (Institute of Medicine). 2015

Negli ultimi anni lo studio dell’epigenetica, cioè dei cambiamenti dell’espressione dei geni in seguito a stimoli ambientali, ha chiarito molti aspetti dei meccanismi legati all’espressione genica. Oggi sappiamo che in natura tutti gli organismi viventi ricevono stimoli dall’ambiente e che questi possono cambiare il modo in cui i geni si “accendono” o si “spengono”.
Nonostante il cammino della scienza sia ancora lungo, lo studio dei meccanismi epigenetici sta già rispondendo a molte domande che i ricercatori si ponevano da tempo. Le più importanti riguardano forse lo sviluppo di malattie metaboliche: come può l’ambiente influenzare l’insorgenza di queste patologie? Quanto è importante questa influenza esterna sull’espressione dei geni che condizionano il nostro comportamento alimentare e il nostro metabolismo?
Da vari studi, recenti e non, è noto che il rischio di obesità è influenzato dalla relazione dinamica fra l’ambiente, la genetica e le prime fasi di sviluppo del bambino. In particolare, a destare preoccupazione è l’obesità infantile con le sue conseguenze a breve e lungo termine, viste le dimensioni e la diffusione del fenomeno e il relativo aumento della spesa sanitaria.
L’analisi delle relazioni fra epigenetica e sviluppo di obesità è ancora in corso, ma esaminare queste prime idee iniziali, su cosa e come si può cambiare, potrebbe condurre a nuove soluzioni per la prevenzione dell’obesità infantile.
Uno degli studi epidemiologici più importanti al riguardo è quello relativo alla carestia olandese del 1944, seguita dall’aumento del rischio di obesità, ipertensione, diabete tipo II e addirittura disturbi psicopatologici come schizofrenia e depressione, nei discendenti. I meccanismi con cui questo aumentato rischio era trasmesso erano meccanismi epigenetici: nei feti esposti alla restrizione calorica materna, rispetto ai nati nei periodi precedenti o seguenti la carestia, c’era quindi una maggiore incidenza delle suddette patologie. Questo fenomeno è stato interpretato come un meccanismo ad alto significato evolutivo: l’organismo in formazione registra le caratteristiche dell’ambiente in cui crescerà e si adatta, a costo di ammalarsi in seguito con maggiore probabilità. Dunque, l’epigenetica ha un’influenza importante sulle origini dell’obesità, dallo sviluppo fetale ai primissimi anni di vita.
Alcuni gruppi di ricerca si sono concentrati in modo specifico sulla nutrizione materna e paterna. Studi su topi geneticamente identici esposti in utero a diete materne differenti mostrano che si possono sviluppare fenotipi molto diversi, includendo differenti pesi e differenti conformazioni fisiche. In particolare, topi che dovrebbero normalmente essere obesi acquisiscono un fenotipo magro se la loro madre è esposta a una dieta fortificata con colina, acido folico e vitamina B12, che influenzano la metilazione del DNA in un locus genetico particolare. Analogamente, in vari modelli animali, diete ad alto tenore di grasso durante la gestazione risultano associate a diverse espressioni geniche relative al metabolismo lipidico, a quello glucidico, alla regolazione dell’appetito. Questa espressione genetica alterata può influenzare il metabolismo lipidico e carboidratico della prole, con influenze sul fenotipo delle generazioni successive. Alcuni di questi effetti possono essere mitigati se la nutrizione post natale è correttamente bilanciata e, in particolare, se ha una adeguata composizione lipidica.
L’alimentazione materna durante la gestazione influenza anche il microbiota* della madre e dei suoi figli. In uno studio giapponese sui macachi, ad esempio, madri alimentate con tipica dieta occidentale, ricca di grassi animali, subiscono una traslazione verso specie del microbiota che influenzano il metabolismo lipidico e attivano meccanismi pro infiammatori. Questa modificazione si registra anche nella prole.
Alcuni studi sostengono inoltre che anche l’alimentazione paterna abbia un ruolo importante, poiché modificazioni epigenetiche sembrano agire sulle caratteristiche dello spermatozoo che fertilizza l’oocita. Nei ratti, ad esempio, una dieta paterna ad alto tenore di grassi provocava una disfunzione delle beta cellule pancreatiche nelle femmine della prole. Anche l’obesità paterna sembra influenzare la salute metabolica a riproduttiva della prole per molte generazioni. È chiaro, dunque, che l’alimentazione dei genitori può rappresentare un fattore epigenetico di grande impatto sul fenotipo comportamentale e metabolico della prole.
Questa mole di conoscenze, ancora in via di approfondimento e sviluppo, può contribuire ad approntare, in modo mirato ed efficace, progetti di prevenzione dell’obesità infantile, attraverso programmi di informazione e sensibilizzazione a partire dai percorsi di accompagnamento alla nascita, passando per quelli di supporto all’allattamento naturale e procedendo con l’educazione alimentare in età scolare e nell’adolescenza.

 

Note 

*la comunità di organismi unicellulari che vive in stretta associazione con il nostro organismo.

LA seconda immagine è tratta da IOM (Institute of Medicine). 2015. Examining a developmental approach to childhood obe- sity: The fetal and early childhood years: Workshop summary. Washington, DC: The National Academies Press.

Riferimenti e approfondimenti:

Joss-Moore LA et al. 2015. Epigenetic contributions to the developmental origins of adult lung disease. Biochem Cell Biol;93:119-27.

Lane RH. Fetal programming, epigenetics, and adult onset disease. Clin Perinatol 2014;41:815-31.

Majnik AV, Lane RH. 2015. The relationship between early-life environment, the epigenome and the microbiota. Epigenomics;7:1173-84.

Dobbs, D. 2013. The social life of genes. Pacific Standard, September 3.

Lillycrop, K. A., and G. C. Burdge. 2011. Epigenetic changes in early life and future risk of obesity. International Journal of Obesity 35(1):72-83.

Peterson J. Et al. 2009. The NIH human microbiome project. Genome Research 19(12):2317-2323.

Friedman J. E. 2015. Obesity and gestational diabetes mellitus pathways for programming in mouse, monkey, and man—where do we go next? The 2014 Norbert Freinkel Award lecture. Diabetes Care 38(8):1402-1411.

Kumar H. et al. 2014. Gut microbiota as an epigenetic regulator: Pilot study based on whole-genome methylation analysis. MBio 5(6): e02113-e02114.

Lane M. et al. 2015. Peri-conception parental obesity, reproductive health, and transgenerational impacts. Trends in Endocri- nology and Metabolism 26(2):84-90.

 

Informazioni su sedi, orari e modalità operative dello studio nutrizionale 

Ancora un’emozione!

Fra pochi giorni si terrà la prima presentazione del mio nuovo libro “Il cibo dell’accudimento”.
Come sempre, non so dire la mia emozione. E’ strano che a chi fa della passione per la scrittura una professione, d’un tratto, manchino le parole. Ma è proprio così: l’ansia, l’entusiasmo e la gioia che mi accompagnano nel mio modesto mestiere di scrivere di cibo, relazioni e vita tacitano il verbale, come se ogni frammento di energia e attenzione fosse rimasto incagliato nel faticoso, seppure affascinante, navigare nel mare fluido e misterioso interposto fra i pensieri e il ticchettio frenetico sui tasti. Come se esprimere questo “tanto” e “tutto” che mi agita gioiosamente il cuore togliesse qualcosa all’emozione stessa, la sminuisse, la opacizzasse.
Così è, dunque. Sono emozionata e muta. Nell’impazienza di presentare quest’ultima creatura a chi vorrà scoprirla sorrido e sospiro in silenzio, gustando la soddisfazione di essere arrivata fino in fondo anche questa volta.
Vi aspetto, allora, per condividere questa mia vaga, seppure lusinghiera, idea di felicità!

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Cibo e sacralità – Un’intervista di TuttoMondo

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Dal sacro alla tavola
di Dario Soriani

La simbologia cui il cibo ci conduce è argomento affascinante e strettamente collegato al rapporto stretto e indissolubile con il sacro. Saggi, libri e tesi sono già stati scritti su questo antico legame e su tutto ciò che ne consegue, ma ciò non toglie che rimanga un argomento affascinante e stimolante che può ancora essere letto da punti di vista nuovi e guardato da angolazioni diverse, dando così spazio a riflessioni a loro volta nodali e basilari.
La sacralità, e molto di ciò che la riguarda, attiene intrinsecamente al rito. Allo stesso modo il cibo e l’alimentazione hanno nella loro storia molto di rituale: orari, tradizioni secolari, l’insieme di azioni che lo contestualizzano. Del rapporto tra cibo e sacro abbiamo tracce fin dalle antiche civiltà: i banchetti greci e i loro simposi, le offerte sacrificali agli dei, i cibi usati per rappresentare simbolicamente alcuni dei, gli egizi che mettevano il cibo accanto ai defunti per continuare a nutrire l’anima. E con l’avvento delle religioni rivelate questo legame si è stretto ancor di più; possiamo dire che le maggiori di queste religioni sono connaturate con il cibo e con le sue declinazioni e i suoi ritmi, i giorni dell’abbondanza (le feste) e i giorni del digiuno (le penitenze).

Alla luce di tutto ciò, e per dare un taglio caratterizzante all’argomento, abbiamo deciso di parlarne con Giusi D’Urso, biologa nutrizionista, educatrice alimentare, autrice di testi divulgativi, cofondatrice del Centro di Educazione Alimentare La MezzaLuna, esperta e amante del buon cibo in tutte le sue forme e le sue valenze. Leggi l’intervista su tuttomondonews.it

Il primo impegno dell’ultimo nato!

covergiallaLa prima volta in pubblico per “Conosci il tuo cibo”!
Vi aspetto a Lucca, il 6 settembre alle 16,30.

Prevenire significa arrivare prima

a10La prevenzione è la messa in pratica di una serie di strumenti, individuali e collettivi, che permettono di preservare la salute; ovvero, di “arrivare prima” delle malattie. La scienza ci dice chiaramente da tempo che gli stili di vita, e fra questi quello alimentare, sono uno strumento fondamentale per prevenire molte fra le patologie più diffuse nella nostra epoca: metaboliche, cardiovascolari, tumorali, gastro-enteriche, neurodegenerative, autoimmuni. Per quale motivo, allora, pur sapendo che mangiare correttamente e muoversi ogni giorno può allungare la vita e renderla qualitativamente migliore, spesso si continua a non prendere in considerazione la questione, attendendo che un esame diagnostico o un evento nefasto ci facciano cambiare idea?
Daniel Goleman nel suo Intelligenza ecologica  sostiene che l’essere umano non riesce ad allarmarsi di fronte a minacce che lo attendono in un’epoca imprecisata del futuro, mentre è ben disposto al cambiamento una volta che le sue certezze siano state messe fortemente e drammaticamente in discussione. Questo concetto, sviluppato da Goleman a proposito dell’utilizzo spregiudicato e del conseguente depauperamento delle risorse terrestri, può senza dubbio essere trasferito dalla dimensione ecologica a quella individuale. Oggi, rispetto ad epoche passate, abbiamo molti strumenti per “arrivare prima”; l’informazione è alla portata di tutti, l’educazione alla salute e l’educazione alimentare sono discipline molto diffuse e accessibili. Ma quello che farebbe la differenza è il cambiamento, al quale invece non facciamo che opporre resistenza. In un saggio affascinante dal titolo La storia del corpo umano, l’autore  Daniel Lieberman sostiene che l’evoluzione culturale, aprendo le porte alla conquista di comodità e benessere abbia surclassato e, in un certo senso mortificato, quella fisica che ha reso il nostro organismo adatto ad alcuni comportamenti e non ad altri. Saperlo, però, dovrebbe farci riflettere, poiché non prendersi cura della propria casa, sia essa la Natura o il proprio organismo, significa eludere questioni che ci riguardano da vicino e che fanno la differenza fra stare in salute o ammalarsi (sia in senso ecologico che individuale). Allora, perché “usurare” senza riguardo qualcosa che possiamo preservare e che può garantirci salute e longevità?

 

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