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Quanto ci piace mangiare!

cropped-donne-allopera.jpgFino a qualche decennio fa, per spiegare il ricorso al cibo avremmo scritto e sostenuto che quando nel nostro organismo i nutrienti energetici calano al di sotto di un certo valore soglia percepiamo la necessità di mangiare. Oggi sappiamo che questa spiegazione non basta: non mangiamo solo per colmare carenze energetiche e nutritive. Nell’atto del cibarsi si celano molte e complesse relazioni fra sensi, ambiente, metabolismo e genetica. Dal punto di vista biologico, insomma, l’essere umano mangia perché ha fame, ma quest’unica motivazione non basta, in realtà, a guidare le sue scelte alimentari. Ecco alcuni dei motivi per cui ci piace tanto mangiare.

Gli alimenti che abbiamo a disposizione hanno la capacità di incentivare la scelta e l’approvvigionamento a seconda del momento e del contesto in cui vi siamo esposti. Lo stesso cibo, quindi, può apparire più o meno accattivante a seconda dei momenti in cui veniamo a contatto con esso. Ne è un chiaro esempio la tendenza ad acquistare cibarie anche superflue quando andiamo a fare la spesa a stomaco vuoto. In quel momento subiamo l’anticipazione del piacere di mangiare, più che l’esigenza di introdurre nutrienti energetici. Pensiamo anche all’appetibilità di un gelato in una calda giornata estiva, rispetto all’attrazione che può suscitare in montagna, in un pomeriggio d’inverno! Ci sono, dunque, condizioni ambientali fortemente incentivanti.

È interessante notare quanto pesi sulle nostre scelte alimentari l’aspetto di un prodotto (chi si occupa di pubblicità la sa lunga!) che ha spesso poca o nessuna relazione con il suo valore nutrizionale. Esso può creare aspettative di stimolazioni sensoriali gradevoli che spingono alla scelta. Negli anni ’80 del secolo scorso fu condotto un esperimento sulla relazione fra la dolcezza percepita e il colore di una bibita a base di succo di limone e lime, condotto su individui di 20-25 anni, cui venivano somministrate bibite con 5 intensità diverse di colore e 5 livelli diversi di dolcezza. I risultati dell’esperimento evidenziarono che le persone giudicavano progressivamente più dolci, e quindi più gradevoli, le bibite con il colore progressivamente più intenso. Il sapore dolce, peraltro, preferito sin dai primissimi istanti di vita, è motivo di comportamenti atavici ed ha un valore altamente evolutivo, poiché i cibi dolci rappresentano in genere una fonte immediata di energia.
È stato provato, inoltre, che esiste una connessione tra piacere sensoriale e desiderio di carboidrati e, in particolare, fra carboidrati e umore. Chi sente il bisogno urgente di mangiare zuccheri (semplici o complessi) riferisce in genere di provare sensazioni negative quando si priva di carboidrati: malumore, ansia, spossatezza. Il miglioramento dell’umore successivo alla “ricompensa” fa sì che quel tipo di scelta venga ripetuta. Questo comportamento, però, può indurre a un eccessivo introito di cibi energetici e quindi a un conseguente aumento ponderale. È necessario, quindi, imparare a scegliere i carboidrati, ad evitare il più possibile quelli ad alto indice glicemico e ad associarli ad altri fonti nutritive che ne completino il profilo nutrizionale.

Anche la convivialità, ovvero l’abitudine di stare a tavola insieme ai nostri cari e ai nostri amici, rappresenta un incentivo positivo al consumo di cibo, poiché associamo le sensazioni gradevoli degli alimenti (in genere, i più graditi o  che ci incuriosiscono di più) a quelle della compagnia e della condivisione. È noto a tutti quanto possa essere difficile percepire la sazietà e smettere di mangiare quando si è in compagnia al ristorante!

La voglia di mangiare e, in particolare, quella di “gustare” fa parte di noi. Si sviluppa e si manifesta in vari modi e cela relazioni profonde e imprescindibili fra la nostra fisiologia e tutto quello che, ci piaccia o no, fa parte della nostra storia e della nostra quotidianità.

Chissà che saperlo non ci renda più competenti nelle scelte e più immuni ai sensi di colpa!

 

(pubblicato anche su La MezzaLuna)

Cultura del cibo ai tempi della Tisanoreica, ovvero come farsi del male in tanti facendo arricchire i pochi.

Una bustina dal colore dorato, o azzurro, a seconda che si tratti di una cena o di un dolce. Scioglierne in acqua il contenuto, senza nemmeno chiedersi di cosa è fatto. Sedersi a tavola (ma non è così strettamente necessario) contenti perchè quella tisana ci farà perdere peso e, pensate, senza neanche aver cucinato. Beh, il massimo, no?
Peccato che “mangiare” sia un’altra cosa. Peccato che le bustine siano costosissime e non siano “cibo”. Peccato che questa idea sia frutto della mente di un imprenditore figlio di erboristi (con tutto il rispetto), non un medico, non un biologo, non un biochimico. Peccato che la sua ambizione reale non sia quella di far stare bene la gente, ma di vendere il suo prodotto.
Ma, soprattutto, peccato che questa ennesima trovata imprenditoriale spazzi via un altra fetta di cultura del cibo e convinca migliaia di persone che è meglio un liofilizzato da sciogliere in acqua di una passeggiata a passo sostenuto in un parco, e di una vita attiva e ricca di scelte “responsabili” e “consapevoli”. Peccato che, e questo credetemi mi fa davvero male, migliaia di ragazzi e ragazzi in piena crisi di identità, magari con il pallino della magrezza estrema, subiscano il condizionamento di tali nefandezze.
Il cibo, come ripeto da anni (e mi sono quasi venuta a noia da me!) è parte di noi e della nostra storia, della nostra crescita come esseri umani. E’ uno strumento sociale e socializzante. Il cibo non è solo nutrimento, è cultura. Non siamo serbatoi, provette di polietilene, macchine. Siamo ancora Homo Sapiens. Veniamo dai raccoglitori nomadi, siamo onnivori bipedi, siamo capaci di sopravvivere a condizioni estreme, siamo capaci di grandi cose.
Perchè, allora, rinunciare al “Sapiens”??? Perchè non porsi domande invece di continuare a delegare la nostra salute e la nostra felicità al mercante di turno?
Sopravvissuti alle ere glaciali, possibile non riconoscere una cialtroneria?