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Merende antiche e mamme moderne

Viviamo in un’epoca davvero molto strana e, a tratti, inquietante. Un’epoca in cui la buona volontà e l’apertura di alcuni cozzano violentemente con la pigrizia mentale di altri.

Questa volta, il motivo del mio cruccio è la vanificazione di un progetto virtuoso proposto, in una classe delle primarie della mia città, da una mamma consapevole e attenta all’alimentazione dei propri figli.

La proposta riguardava l’attesa festa di fine anno per la quale è stata proposta la “merenda antica”, un pomeriggio, cioè, per stare tutti insieme, bambini e genitori, gustando merende quali pane burro e zucchero o marmellata, pane e olio, pane e pomodoro. Mentre di primo acchito la proposta è stata accettata da tutti, al momento di iniziare a gestire l’organizzazione si sente una voce femminile sulle altre proporre:

–         ma se invece della marmellata portassimo la nutella?

Ora, la prima osservazione spontanea è che le nostre nonne e bisnonne (donne antiche), udendo il termine “nutella”, chiederebbero quanto meno spiegazioni sulla tipologia dell’alimento rappresentato. Siamo abituati a chiamarla così, con il suo famigerato nome commerciale, la tanto squisita quanto dannosa crema di cioccolato e nocciole che la mamma in questione ha proposto al posto della marmellata (nome non commerciale che identifica da sempre un buon cibo a base di frutta!). Rimanendo nell’atmosfera di “merende antiche”, la mamma avrebbe potuto proporre semplicemente pane e cioccolata!

Ma questo continuo ricorso ai marchi e ai cibi “falsi” la dice lunga sulle abitudini alimentari di molte persone (ahimè, i più!) e la dice lunga sulla mancanza di consapevolezza, sulla fatica della scelta e sul rifiuto della scelta stessa. E’ vero, scegliere la cosa giusta, il cibo giusto, è molto faticoso; ancora di più lo è imporre una regola al proprio figlio, soprattutto durante una festa, in cui nessuno accetta di buon grado paletti e ordini e nessuno gradisce bizze e capricci al cospetto di altre famiglie ed altri bambini! Quindi, meglio andare sul sicuro; meglio che la merenda antica contempli un’alternativa moderna ma certamente accettata, che però vanifica inevitabilmente l’obiettivo della proposta iniziale.

Questa dinamica, oggi così comune, è la “delega” che mina fortemente l’autorevolezza e il ruolo del genitore, facendo dei danni indicibili, non soltanto dal punto di vista alimentare.

Se ci pensiamo, è quello che facciamo continuamente, a prescindere dall’essere o meno genitori. Riempiamo i carrelli di prodotti su cui la tv ci indottrina e tutto ciò che va al di là di queste finte scelte ci disorienta e destabilizza. Perché? Perché siamo convinti, forse, di non essere in grado di fare scelte in modo autonomo. Convinti che qualcuno (chi???) ne sappia sempre un po’ più di noi e che debba insegnarci a stare al mondo.

Ma come? Siamo in grado di procreare, scrivere, leggere, avere idee, costruire cose con le mani. Come si può pensare di non essere capaci di dare al proprio figlio delle indicazioni giuste su cosa è bene mangiare e cosa no?

Prendiamoci il tempo di riflettere sulla parola “scelta” e poi facciamola, la nostra scelta, autonoma e consapevole, senza paura delle conseguenze, senza paura di affrontare la fatica di dire di “no” ad un figlio.

Tornando alle “merende antiche”, mi piace pensare che la mamma che le ha proposte con convinzione sia come un seme che, in quella scuola, in quell’ambiente, abbia fatto del suo meglio per germogliare. La terra arida può diventare fertile, se seminata e nutrita con perseveranza e motivazione. Mi piace pensare che le “merende antiche” siano come l’acqua e come il sole: preziosi, necessari e, prima o poi, sono certa, convincenti.

L’impopolare, scomoda, cultura del cibo.

Di cosa parliamo esattamente quando citiamo il cibo nelle nostre conversazioni? Parliamo di diete, di rinunce o di scelte scellerate, e quanto mai assurde, che possano aiutarci a perdere peso (più che a farci stare meglio). Oppure, parliamo di ricette, o meglio, di trasmissioni televisive e di giornali che ce le propinano in grande quantità, facendoci venire la voglia di parlarne ancora e, subito dopo, quella di metterci a dieta.

Dipende anche dai luoghi, fateci caso. Dal parrucchiere si parla di linea, di cellulite e di altre amenità femminili (e non); mentre al supermercato, se si trova il tempo e il modo di farlo, si parla di offerte, prendi tre e paghi due, nuovi prodotti in promozione, vecchie marche che ci danno sicurezza. Una sicurezza vuota, però, costruita, appunto, solo sulla notorietà di quel marchio, piuttosto che di un altro.

Di cosa parliamo, quindi, quando parliamo di cibo? Di un enorme vuoto che, paradossalmente, viene riempito di ansie, miti, aspettative, paure, inconsapevolezze, superficialità. Il cibo è vuoto. Un grande contenitore che attende di essere colmato di tutto ciò che la nostra quotidianità ci pone davanti. Questa immagine non è affatto lusinghiera, se il quotidiano è un continuo condizionamento attraverso immagini di magrezze estreme e, allo stesso tempo, di cibarie finte ma assai succulente che vantano effetti da elisir di lunga vita.

Spostiamo, allora, per un attimo il nostro punto di vista e proviamo a capire il motivo di tanto vuoto e  della difficoltà di riempirlo di cose meno effimere e più utili all’essere umano.

Qualcuno ci ha fatto credere che si può fare a meno della cultura del cibo, cioè di quel variegato ed abbondante bagaglio fatto di sapienza tramandata, di gusto sviluppato negli anni, della certezza atavica dell’istinto, che ognuno di noi si porterebbe “dentro”. Qualcuno, con mezzi potenti ed infallibili, ci ha convinti, e ci riprova ogni giorno, che possiamo fare a meno di scegliere, dandoci l’impressione che tutto ciò di cui abbiamo bisogno sia sempre e ovunque a portata di mano: disponibile, abbondante, a buon prezzo e, soprattutto, salutare e indispensabile.

Questa, in breve, la tipologia di cose che riempie oggi il vuoto che la cultura del cibo ha lasciato.

È terrificante, se pensiamo quale significato ha per ognuno di noi l’atto del mangiare sin dalle primissime fasi dalla nostra esistenza.

La domanda quindi si trasforma e diventa: di cosa dovremmo parlare, allora, ogni volta che parliamo di cibo? Forse, dovremmo iniziare dall’imperativo che un tempo fu unico e imminente, cioè dalla sopravvivenza. E dovremmo spingerci più in là, riflettendo sulla qualità del cibo e della vita (i due concetti sono l’uno padre dell’altro). Dovremmo parlare di “provenienza” e “sicurezza”, lasciarci coinvolgere di nuovo dall’istinto e riabilitare il nostro gusto per i sapori semplici e naturali. Riflettere sulle scelte troppo facili e sulle loro conseguenze che partono da qui, ma si infrangono altrove con una potenza che neppure immaginiamo. Dovremmo, cioè, riempire di nuovo quell’enorme contenitore con una nuova, ma antica e preziosa, cultura del cibo.

Questo, però, pone ed impone altri interrogativi.

Perché è così difficile? Perché chi lavora per “costruire” questa cultura trova davanti a sé ostacoli insormontabili?

L’unica risposta che trovo plausibile è, purtroppo, anche la più grave e cioè che la cultura del cibo sia alquanto impopolare, fastidiosa, destabilizzante e pericolosa, per chi produce il cibo di cui si parla tanto oggi e tutto quello strascico mediatico derivato, che satura il vuoto di cui sopra (cibo spazzatura, diete, prodotti dimagranti, prodotti precotti, confezionati, fortificati, ecc.).

Che dire, poi, dei tentativi educativi e/o riabilitativi messi in atto dalle istituzioni? A me, che sono abituata ad agire e valutare nell’immediato le conseguenze di ciò che faccio, pare che fino a questo momento ci sia stato un grande dispendio di risorse pubbliche senza grandi risultati e pare, altresì, che le metodologie usate siano discutibili e i partners coinvolti non sempre in linea con gli obbiettivi da raggiungere.

Questa, attualmente la nostra pseudo-cultura del cibo (e, purtroppo, non solo): mangiare porcherie per poi mettersi a dieta, smettere di pensare e di scegliere per disimparare a ragionare con la propria testa, lasciarsi fagocitare da questo sistema consumistico estremo per generare rifiuti che poi dovremo smaltire in modo dispendioso, allontanarci dalla terra e dai frutti che produce per aprire scatolette che ci fanno risparmiare tempo, acquistare cibi finti che soddisfano solo il palato, arrecando un danno enorme alla salute e costringendoci a ricorrere a cure farmacologiche, prodotte da un sistema che si vanta di allungarci la vita . A che prezzo?

Questa è la domanda: quanto è alto il prezzo da pagare per questa comoda esistenza piena, zeppa, di scelte altrui e completamente vuota della preziosa cultura del cibo che ci identifichi e ci salvi dal vuoto?

Riflettiamo sui condizionamenti e cominciamo ad annotare, ogni giorno, le nostre scelte alimentari: accanto, due caselle: a) sto scegliendo io b) qualcun altro sta scegliendo per me.

Cominciamo da qui, dal coraggio di metterci in dubbio. Poiché, come qualcuno disse molto tempo fa, meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore.

Il “Baby food”, ovvero come invitare l’industria alimentare al lauto banchetto dell’alimentazione per l’infanzia!

“Baby food” è il termine, a mio avviso terribile, con cui certi pediatri, oggi, definiscono gli alimenti industriali destinati all’alimentazione infantile. Non c’è da stupirsi, penserete, siamo nell’epoca in cui tutto viene etichettato, definito, distinto in categorie: junk fooddiet industry, etc etc.
Ebbene, mettendo da parte la perplessità relativa a certi modi discutibili di fare informazione e comunicazione di massa, cerchiamo di capire cosa si sta muovendo sotto certe dinamiche relative, appunto, all’alimentazione infantile (e non).
E’ trascorso pochissimo tempo dalla vergognosa guerra Plasmon- Barilla e l’altrettanto vergognosa campagna pubblicitaria promossa dalla FISM (Federazione Italiana Medici Pediatri) a vantaggio dei cibi industriali destinati all’infanzia. Le reazioni dei consumatori e le tante associazioni che li rappresentano , come ricorderete, sono state molte e decise.
Ma i paladini del Baby food  sono determinati, pare, a portare avanti la loro battaglia, basata sul dato (supportato da quali ricerche scientifiche?) che il cibo industriale per bambini sia non solo più buono e sano, ma anche più sicuro di quello naturale. Vale a dire che un passato di verdure fatto in casa, secondo questo modo di pensare, nutre meno e fornisce minori garanzie di sicurezza rispetto a quello chiuso in barattolino che compriamo al supermercato.

Leggo su un articolo apparso in questi giorni su un seguitissimo blog: “Anche Giuseppe Mele, presidente FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri) ha ribadito l’importanza già menzionata dall’On. Martini di istituire una Scuola di nutrizione per i pediatri innanzitutto per una promozione all’allattamento materno con un passaggio, dopo i primi sei mesi, ai “baby food” che rispondano a delle leggi ben precise. ” C’è di che preoccuparsi se si pensa che, a proposito di leggi, proprio nel nostro Parlamento, il 15 febbraio scorso, l’ormai famosa dieta tisanoreica è stata “promossa” a dieta elettiva per combattere l’epidemia di obesità in corso nel nostro Paese.

Leggo anche che la procura di Torino indaga su 106 casi di pubertà precoce registrati all’ospedale Regina Margherita. Il pm Raffaele Guariniello ha aperto, difatti, un fascicolo con l’ipotesi di reato di lesioni colpose, al momento contro ignoti, per vederci chiaro sulla diffusa pubertà precoce fra le bambine.

Fra le mie letture sul tema c’è anche un bel lavoro  pubblicato nel 2011 dal team pisano del Centro Endocrinologia Pediatrica, Dipartimento di Medicina Procreazione e Età Evolutiva dell’Università di Pisa, relativo alla presenza di una pericolosa tossina fungina dei suoi derivati metabolici nei latti artificiali per neonati e lattanti.

Voglio citare, perchè non si metta nel dimenticatoio, anche la recente campagna contro il prof. Franco Berrino  (direttore del Dipartimento di Medicina preventiva dell’Istituto dei Tumori), cui è stata affidata la gestione della ristorazione scolastica di Milano nell’ultimo anno scolastico. Berrino, per chi non lo sapesse, ha abolito bevande zuccherate e insaccati dai menu scolastici, ridotto drasticamente il consumo di carni  a favore dei legumi e della verdura di stagione, indicando la dieta mediterranea “vera” quale stile alimentare elettivo per prevenire numerose malattie cardio-vascolari, tumorali e degenerative.
Mi chiedo, a questo punto, cosa possa provare una mamma di fronte a letture di questo tipo e quale possa essere la sua frustrazione di fronte alla scelta più adeguata per il proprio bambino. L’argomento “alimentazione infantile” è ansiogeno di per sé per ogni genitore e credo, francamente, che almeno gli esperti dovrebbero evitare di creare confusione sui termini, sulle definizioni, sulla comunicazione di certi messaggi. Penso che ogni genitore abbia il sacrosanto diritto di informarsi e poi scegliere, a patto che l’informazione sia corretta, chiara e trasparente. E su questo trovo che ci sia ancora moltissima strada da fare.

Che non amo il cibo industriale è cosa nota, così come che non credo nella  perfetta buona fede di chi lo promuove a spada tratta. Credo fermamente, invece, nella consapevolezza e nel concetto che ogni scelta debba essere sensata e motivata, non esclusivamente basata sui dettami di una categoria, tanto meno della pubblicità.
Teniamo a mente, quando dobbiamo scegliere, che ormai da tempo il cibo è una “merce” e che quindi ha un mercato. Dove c’è un mercato, si sa, i mercanti fanno il loro mestiere!

 

 

 

Cercasi autorevolezza disperatamente!

L’autorevolezza, spesso erroneamente scambiata per autorità, è quella ormai rara qualità di un genitore che, con dolcezza, coerenza e determinazione riesce a fare da guida ai propri figli, indicando loro la strada, promuovendo la loro autosufficienza e nutrendo la loro autostima. Ciò a cui assistiamo oggi è, purtroppo, una sempre più diffusa assenza di regole e di coerenza, contestualmente ad un profondo senso di colpa genitoriale per ogni “no” timidamente sussurrato. A tavola, come in ogni ambito della vita quotidiana, la coerenza e la definizione dei ruoli sono fondamentali. L’alimentazione dei bambini è peggiorata enormemente nel’ultimo decennio e con essa la capacità di scegliere consapevolmente. Si assiste a una continua “delega educativa” dei genitori verso la tv, la pubblicità, le tendenze del momento e, soprattutto si fanno i conti, sempre di più, con il vuoto profondo lasciato dalla mancanza di autorevolezza e di attenzione, sempre più spesso colmato da cibo spazzatura e abitudini sedentarie.
Fare il genitore non vuol dire solo metterli al mondo, anche perchè “il mondo” è e sarà come siamo noi.

Idea nata dalla lettura di: http://www.ecodibergamo.it/stories/Cronaca/266118_un_bimbo_su_dieci__oversize_basta_bis_a_tavola_pi_severi/

I modelli, il cibo e la cattiva comunicazione.

Oggi, per arrabbiarmi un po’, prendo spunto dal racconto fattomi da un’amica, la cui bambina di otto anni è arrivata a casa con una novità: la maestra a scuola ha detto che alcuni cibi vanno evitati perché fanno ingrassare.
È bello, lo dico con convinzione, che una maestra si interessi all’educazione alimentare e che esprima la volontà di insegnare ai bambini la sana alimentazione. Ma, come in tutte le cose, ci sono mille modi per raggiungere un obiettivo e ritengo che questo modo sia il meno adeguato e all’argomento e al target cui è rivolto.
Se a un bambino insegniamo come accendere un fiammifero senza scottarsi, spiegandogli come tenerlo fra le dita, come orientare la fiamma e quando è il momento di soffiarvi sopra per spegnerlo, egli acquisirà una competenza, motivato da ciò che abbiamo trasferito, magari accompagnando il messaggio con l’esempio. Se, invece, al bambino viene detto che il fuoco brucia ed è pericoloso, quel bambino probabilmente non imparerà mai a gestire correttamente un fiammifero.
Vorrei che ognuno di noi riflettesse sul linguaggio. La nostra lingua è complessa e molto articolata: esistono numerose parole e altrettanti modi di dire la stessa cosa. Ma, facciamo un passo indietro e cerchiamo prima di avere le idee chiare su cosa vogliamo comunicare, con particolare attenzione al destinatario della nostra comunicazione.
Parlare di cibo a bambini della scuola primaria, così come agli adolescenti, implica una serie di competenze, responsabilità, abilità comunicative. Se è vero che il cibo non è solo nutrimento (non mi stancherò mai di dirlo e scriverlo!), ma anche e soprattutto strumento sociale, di condivisione e confronto con i pari, allora non può essere trattato come qualsiasi argomento, ma richiede delicatezza e attenzione. Se il corpo è il mezzo attraverso cui il bambino e l’adolescente si misurano con il resto del mondo, allora parlare senza cognizione di causa ai bambini di “grasso”, “ciccia”, “alimenti ingrassanti” o “dimagranti” è quantomeno rischioso, soprattutto se diamo un’occhiata a certi numeri: in Italia per ogni 1000 donne fra i 10 e i 25 anni si verificano tre casi di anoressia, dieci di bulimia, settanta di disturbi subclinici, cioè di difficile diagnosi; si registra, inoltre, una preoccupante anticipazione dell’età d’esordio in età prepubere (bambini sui 7 anni possono manifestare anoressia). In aumento anche i casi maschili adolescenziali (rappresentano un decimo di quelli femminili per l’anoressia nervosa) che tendono più al consumo per esercizio fisico che alla condotta alimentare restrittiva.
Sarebbe corretto, dunque, non avventurarsi in gineprai da cui poi è difficile uscire. L’educazione alimentare nelle scuole è fondamentale, ma va affrontata in modo serio e prudente, soprattutto in età pre-adolescenziale. Ritengo che gli educatori abbiano un ruolo importantissimo e che siano figure di riferimento su cui contare, a condizione, però, che i loro passi non siano azzardati e non si muovano su terreni a loro poco congeniali, in un’epoca, la nostra, in cui gli aggettivi “grasso” e “magro” assumono significati ben più complessi rispetto al passato.
Buona riflessione!

Spiegare il cibo ai bambini: adeguare l’educazione alimentare ai cambiamenti del mondo.

Ho l’ambizione di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. È un’ambizione motivata dalla certezza che bisogna fornire strumenti adeguati a chi il futuro se lo giocherà con fatica e facendo a meno di risorse a cui noi siamo abituati e che troppo spesso diamo per scontate.
Spiegare il cibo ai bambini non è solo fare educazione alimentare come siamo abituati a pensarla. Certo, sapere che gli alimenti si dividono in gruppi e che sono composti da principi nutritivi è importante. Come lo è, del resto, riconoscere una merenda finta (industriale) da una vera (casalinga)!
Tuttavia, sono convinta che il lavoro da fare sia più profondo, più ampio, più complesso e articolato e che richieda tempo, competenze, dedizione. Non è più sufficiente spiegare ai bambini cosa contiene il pane e quando e come va mangiato. È necessario raccontare loro cosa c’è dietro ciò che mangiano: la fatica di chi coltiva la terra e le difficoltà con cui oggi deve misurarsi. Ci sono modi, tempi e persone per questo, ma tutti possiamo fare la nostra parte, cercando il linguaggio adeguato, dando il buon esempio, non perdendo buone occasioni di confronto. Ricordiamoci che, come scrive J. Juul in uno dei suoi testi più famosi, il bambino è “competente”. Dobbiamo essere pronti a fidarci delle sue competenze e a valorizzarle.
Non è un’utopia insegnare ai bambini che le scelte di ogni giorno pesano sul futuro di tutti. È e deve restare un obiettivo comune a noi adulti.
Ho l’ambizione, dicevo, di spiegare ai bambini cosa sta succedendo al nostro cibo. E spero che sia un’ambizione contagiosa.

Gusto, svezzamento e neofobie. Il ruolo dell’esperienza e dell’esempio.

Quando un bambino comincia a camminare, generalmente, sviluppa una resistenza ai nuovi alimenti. Gli esperti sottolinenano che si tratta di una fase normale durante la quale il bambino non vuole, e non può, rinunciare alle sue certezze, perchè queste lo rendono più forte e lo incoraggiano a nuove esperienze. Il rifiuto di cibi nuovi e sconosciuti è chiamato “neofobia” ed è un meccanismo innato e collaudato per milioni di anni, che in passato probabilmente ha permesso la sopravvivenza nei primissimi ani di vita.

Oggi, purtroppo, le neofobie riguardano più del 20% dei bambini e si prolungano negli anni successivi della vita infantile, spesso cronicizzandosi e portando ad una alimentazione poco variata e carente. Il ruolo della famiglia e della società è fondamentale nel fornire al bambino gli strumenti per superare le neofobie.Pensate: il rifiuto di un alimento è inversamente proporzionale al numero delle offerte di quello stesso alimento. Un lungo e paziente lavoro, fatto di tentativi e buon esempio, può dare ottimi risultati: per ottenere l’adattamento e l’accettazione di un alimento inizialmente respinto sono necessarie, infatti, almeno 7-8 esposizioni prima che il bambino accetti quell’alimento e provi ad assaggiarlo.
L’esposizione precoce ad una grande varietà di sapori è, dunque, la strada maestra  per promuovere nel bambino il desiderio dell’assaggio, soprattutto dei cibi generalmente meno graditi, quali frutta e verdura.
Lo svezzamento, in quest’ottica, fornisce un’ottima occasione di educazione al gusto, che l’industria alimentare, votata al profitto e a scelte globali, tende a scoraggiare. Le esperienze precoci  della fase di svezzamento iniziano a stabilire un percorso di scelte alimentari positive (o negative) che continuano a persistere nel tempo.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, in quanto può fornire la strategia chiave, durante la primissima infanzia, per “educare” il bambino a gusti variati e ricchi, attraverso l’esempio, l’offerta ripetuta dei cibi sani, senza ricorrere a gratificazioni inadeguate con cibi troppo sapidi e scadenti dal punto di vista nutrizionale, né ad espedienti “esterni” quali giochi da portare a tavola o, peggio ancora, all’effetto ipnotico della tv.
Se prendiamo coscienza dei meccanismi educativi virtuosi, di cui siamo atavicamente portatori, possiamo davvero fare qualcosa di utile ed importante per rendere i nostri figli “onnivori”, evitando loro pericolose restrizioni alimentari.