Archivio mensile:maggio 2012

Agricoltura depredata e cibo finto: paradossi, conseguenze ed altri orrori

L’industrializzazione del cibo, iniziata dagli anni ’50-‘60 del secolo scorso, ha creato trasformazioni profonde nelle nostre abitudini alimentari e ha posto le basi per lo sviluppo di una serie di patologie metaboliche cui la nostra generazione e quelle future sono e saranno inevitabilmente predisposte. La prima, gravissima conseguenza è sotto gli occhi di tutti: in Italia abbiamo i bambini più grassi d’Europa e si stima  che le nuove generazioni avranno un’aspettativa di vita inferiore a quella delle generazioni precedenti.

Più o meno parallelamente della corsa al cibo industriale si è verificata la cosiddetta rivoluzione verde che, con l’alibi inoppugnabile di voler risolvere i problemi della fame del mondo, ha aperto la strada all’agri-business che oggi spadroneggia a tutto campo, arricchendo in modo smisurato le multinazionali che detengono il monopolio delle sementi ed impoverendo, anzi depredando, intere popolazione contadine del Sud del mondo e non solo. Ma non basta: all’agri-businnes si è aggiunta la rivoluzione genetica, che, dagli anni ’70 in poi, con un altro alibi inoppugnabile, quale quello di aumentare le rese e dare più reddito ai coltivatori, sì è accaparrata un’enorme fetta di mercato, creando e promuovendo a tappeto chimere commestibili, spacciate per il cibo perfetto per l’essere umano, del cui utilizzo ancora oggi non conosciamo le conseguenze.

Partendo, quindi, dall’ossimoro che più gravemente ha danneggiato la nostra cultura e cioè quello dell’agricoltura industriale, siamo arrivati all’effetto che più pesantemente si è abbattuto sull’uomo, rendendo fragile le sue civiltà e annullando certezze antiche e preziose: obesità e fame nel mondo, due lati della stessa medaglia.

Oggi, dunque, fra le sementi Monsanto, le patate BASF e il junk food di MacDonald’s nasce, fortissima e urgente, l’esigenza di tornare alla terra e di rivalutarne il ruolo fondamentale nel quadro economico di un Paese. Siamo dovuti arrivare, cioè, alle aberrazioni per comprendere (di nuovo) il legame profondo fra cibo, terra e cultura di un popolo!

Ma, dopo decenni di propaganda a favore degli ossimori, dei paradossi e di leggi a favore del consumismo sfrenato, tornare alla cultura del parco, semplice, locale e sufficiente è davvero difficile. Eppure, la partita più importante, da oggi in poi, che ci piaccia o no, si giocherà sull’agricoltura e sul cibo locali che, lungi dall’essere argomentazioni di pochi eletti che fanno e disfano a nostra insaputa, devono segnare, invece, la coscienza di ognuno e far posto a dubbi, domande e voglia di verità. Perché ognuno si chieda quale sarà il proprio ruolo nel lungo e periglioso viaggio di ritorno a una concezione più “umana” del produrre e consumare cibo.

È, come sempre, la conoscenza a dover tornare alla ribalta. Quella attitudine, cioè, a non fermarsi a ciò che appare e ad andare in fondo ad ogni cosa. Quella voglia di verità che ci rende meno sprovveduti e più attivi davanti alle scelte.

Il diritto a conoscere, convinciamocene, non ha bisogno di alcun alibi inoppugnabile, perché è inoppugnabile di per sé; a condizione, però, che ogni individuo lo percepisca come tale. È il classico cane che si morde la coda: meno sappiamo e meno vogliamo sapere. Più cose comprendiamo, più saremo in grado di operare scelte critiche e consapevoli… e, ovviamente, più vorremo conoscere e capire.


La questione, però, come tutti sanno, non è così banale, poiché l’attitudine a voler conoscere e comprendere reca con sé non pochi effetti collaterali, coi quali pochi individui del terzo millennio sono disposti a fare i conti. E quindi, meglio acquistare cibo industriale; meglio smettere di preparare il cibo per provvedere all’accudimento dei nostri figli; meglio acquistare tutto ciò di cui il marketing ci fa venire voglia, senza ascoltare i nostri reali bisogni. Tutto, pur di annegare nell’illusione di risparmiare tempo, e, qualche volta, anche denaro.

Un altro cane che si morde la coda, però, si nasconde dietro le scelte-non scelte della numerosissima popolazione dei non consapevoli: il ricorso continuo agli alimenti industriali, spesso ricchi di additivi, grassi e zuccheri e poveri di vero nutrimento e il rifiuto psicologico di una spesa più vicina alle produzioni locali, solitamente più fresche, sane e stagionali, pone a rischio il nostro organismo rispetto a numerose patologie metaboliche e non, e penalizza, nel contempo, l’agricoltura locale, già di per sé depredata ed offesa dalla presenza ingombrante di quella industriale.

Le conseguente sono (saranno) molto gravi.

In campo alimentare assistiamo allo svuotamento del concetto di cibo: l’atto del mangiare è divenuto un’attività completamente scollegata dalla nostra cultura, dalle nostre origini e, persino, dal nostro modo di “funzionare”. Si mangia (o non si mangia) un cibo perché qualcuno ci ha detto, in modo molto convincente che fa bene (o fa male); si sceglie di non cucinare perché qualcuno ci ha detto che il tempo è necessario per lavorare e produrre più reddito. Si comprano le primizie o i cibi tropicali perché qualcuno ci ha fatto illudere che mangiare ciò che ci pare e piace, ovunque e in tutte le stagioni dell’anno significa che la Natura è al nostro servizio. E così via, senza porci domande, se non quella di quanto risparmieremo con la promozione di turno.

Ingurgitiamo cibo senza chiederci da dove viene, com’è stato prodotto, com’è arrivato fino a noi e se ne abbiamo davvero bisogno. E lo portiamo nelle nostre case, lo condividiamo con parenti e amici, certi (illusi) di fare la cosa giusta. Ma qual è la cosa giusta?

Qual è la priorità dell’essere umano?

Un tempo lontano era quella di sopravvivere e in alcune parti del mondo ancora lo è. Nel mondo più “ricco”, oggi, la priorità, invece, dovrebbe essere il “sapere”. Sapere che spesso i cibi destinati all’infanzia sono prodotti senza attenzione a tossine ed additivi; che la maggior parte dei prodotti confezionati acquistati presso la grande distribuzione ci pone immediatamente di fronte all’esigenza di eliminare un rifiuto, uno scarto; che frutta e verdura provenienti da posti lontani non sono maturati sulla pianta e non nutrono come crediamo; che gli stessi prodotti hanno provocato inquinamento da CO2 viaggiando per lunghe distanze; che i nostri organi e i nostri tessuti non hanno bisogno di un apporto proteico animale come quello della nostra alimentazione di oggi; che produrre tanta carne per tutti questi “carnivori inconsapevoli” significa deforestare intere zone del Sud del mondo per coltivare intensivamente mais e soia, destinati agli allevamenti; che la fame di alcuni popoli non è dovuta alla scarsità di cibo, ma alla sua cattiva distribuzione; che la pasta dell’industria alimentare è fatta con grano di origine lontana, trasportato nei nostri porti dopo essere stato trattato pesantemente con conservanti e antifungini e lasciato per settimane nelle stive delle navi prima di essere distribuito alle industrie; che lo sciroppo di glucosio presente in tutte le merendine per bambini limita il funzionamento di importanti ormoni che regolano il nostro metabolismo.  E molto, molto altro…

Cosa hanno a che fare l’Africa, l’Asia, l’America del Sud e le loro foreste con la mia vita, qui e adesso? Sono Paesi ricchi (ancora per poco) di risorse naturali, le terre in cui l’anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche viene assorbita nel processo di fotosintesi restituendo all’atmosfera l’ossigeno necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, anche a me, che vivo qui e adesso.

E quanto pesa la mia scelta alimentare sull’economia del mio Paese? Moltissimo. Sia in termini di impronta ecologica, che di spesa sanitaria, che di supporto all’agricoltura locale.

Qualche dato: 5 milioni di obesi in Italia, costano al Sistema Nazionale Sanitario circa 8,3 miliardi l’anno, c.a. il 6% della spesa sanitaria (dati Istat); nel decennio 2000-2010 i redditi degli agricoltori italiani sono crollati di oltre il 30%.  (dati Confederazione Italiana Agricoltori); abbiamo bambini in età scolare che chiedono su quale albero nasce il Fruttolo e dove vengono allevate le mucche viola (dati miei!).

Tutto questo, tradotto in disagi, malattie, povertà, smantellamento culturale, pesa e peserà sempre di più sulle nostre vite e, quel ch’è peggio, sulle vite dei nostri figli.

Pensiamoci, allora, quando scegliamo il cibo, poiché la nostra scelta fa, davvero, la differenza.

 

 

La scelta onnivora

Complesse modificazioni anatomiche hanno portato l’essere umano al bipedismo e alla riduzione dei muscoli masticatori a vantaggio dell’elasticità cranica. Uno studio del 2004, pubblicato su Nature, mette a confronto il cranio del gorilla a quello dell’Homo sapiens. Ebbene, le zone di attacco dei muscoli della masticazione sono molto più estese nel gorilla che nell’uomo, nel quale sono limitate all’aera temporale e lasciano le suture craniche libere di espandersi elasticamente.

L’autore chiama questo “deficit” umano handicap alimentare, in virtù del quale il cervello umano, durante lo sviluppo postnatale, cresce tre volte e mezzo rispetto a quello del gorilla. “Brain versus brawn”, cervello versus muscolatura, ovvero efficienza mentale rispetto a forza fisica (masticatoria). Questa equazione si è realizzata grazie alla sopravvivenza alimentare dei portatori dell’handicap masticatorio: il deficit, paradossalmente, è stato “selezionato” ed è sopravvissuto a condizioni estreme. Contestualmente, per avere un grande cervello, oltre alla “gracilizzazione” dell’apparato masticatorio, è stata necessaria un’alimentazione estremamente appropriata alle esigenze nutrizionali di un essere bipede, nomade, dal cranio elastico, ma dalla masticazione non potentissima. L’onnivorismo: ecco l’importante spinta evolutiva che fa dell’uomo un Sapiens.

Il concetto del di tutto un po’ caro ai nostri nonni indica, peraltro, la via maestra per non incorrere in squilibri alimentari e, nella nostra epoca così “contaminata”, di non rischiare il pericoloso l’accumulo di qualche sostanza potenzialmente tossica e dannosa. L’alimentazione delle famiglie presenta oggi un eccesso di proteine animali e zuccheri semplici (oltre che di additivi alimentari), soprattutto quella dei bambini, a discapito di cereali integrali, legumi e frutta. Questa tendenza così diffusa pone a rischio la crescita dei nostri figli e costituisce una delle cause più importanti di obesità, osteoporosi, ipertensione e sindrome metabolica sin dall’adolescenza.

Tornando alla parentesi antropologica, c’è ancora qualcos’altro su cui riflettere. La riduzione dell’apparato masticatorio e dell’ampiezza del palato è stata il presupposto essenziale per l’articolazione di fonemi tipici del linguaggio umano, insostituibile strumento di socializzazione, insieme al cibo e alla sua condivisione. Sempre riguardo al cibo come strumento sociale, Charles Darwin, nel suo “L’expression des émotion chez l’homme et les animaux” (1874) notava che in molte lingue il cibo e la bocca sono indicati con “mum”, “ham”, “am”. E che per indicare la madre si trovano sequenze del tipo “am”, “ma”. Onnivorismo, mamma, grande cervello ed evoluzione. Vi lascio riflettere!

Apparso su genitorimagazine.it

Intervista Radio Versilia

Quattro chiacchiere con Giusi D’Urso, biologa nutrizionista e patologa clinica la quale, oltre alla nutrizione, si dedica con passione anche alla scrittura. È cresciuta in un posto e in un tempo in cui era ancora possibile giocare pomeriggi interi all’aria aperta, avere tutti i giorni in tavola verdure e frutta di stagione e pasti preparati con amore. Oggi, la sua professione la pone quotidianamente di fronte alle cattive abitudini alimentari, in un certo senso, imposte dal consumismo e dalla globalizzazione. Collabora con l’Università di Pisa, cura rubriche in cui si occupa di nutrizione su testate web e cartacee e svolge la libera professione. Sul suo sito invita a farle domande in materia… rivelando una grande disponibilità! E dimostrando di “vivere” la propria professione. L’altra sua passione è la scrittura. Infatti, è autrice di un romanzo “Il bene tolto” e di un interessantissimo manuale “Spunti di nutrizione e altro”pubblicato per Manidistrega Editrice.
Un’intervista agile e brillante: mangiare non significa solo nutrirsi ma anche gratificarsi, ricordare e identificarsi; “dimagrire” è soprattutto una questione di testa e che solo un radicale cambio di abitudini alimentari può assicurare un migliore stato psico-fisico; e molto, molto altro… Tutta da ascoltare!
Puntata n° 10 del 14 maggio 2012 – Radio Versilia  Ascolta l’intervista!

Merende antiche e mamme moderne

Viviamo in un’epoca davvero molto strana e, a tratti, inquietante. Un’epoca in cui la buona volontà e l’apertura di alcuni cozzano violentemente con la pigrizia mentale di altri.

Questa volta, il motivo del mio cruccio è la vanificazione di un progetto virtuoso proposto, in una classe delle primarie della mia città, da una mamma consapevole e attenta all’alimentazione dei propri figli.

La proposta riguardava l’attesa festa di fine anno per la quale è stata proposta la “merenda antica”, un pomeriggio, cioè, per stare tutti insieme, bambini e genitori, gustando merende quali pane burro e zucchero o marmellata, pane e olio, pane e pomodoro. Mentre di primo acchito la proposta è stata accettata da tutti, al momento di iniziare a gestire l’organizzazione si sente una voce femminile sulle altre proporre:

–         ma se invece della marmellata portassimo la nutella?

Ora, la prima osservazione spontanea è che le nostre nonne e bisnonne (donne antiche), udendo il termine “nutella”, chiederebbero quanto meno spiegazioni sulla tipologia dell’alimento rappresentato. Siamo abituati a chiamarla così, con il suo famigerato nome commerciale, la tanto squisita quanto dannosa crema di cioccolato e nocciole che la mamma in questione ha proposto al posto della marmellata (nome non commerciale che identifica da sempre un buon cibo a base di frutta!). Rimanendo nell’atmosfera di “merende antiche”, la mamma avrebbe potuto proporre semplicemente pane e cioccolata!

Ma questo continuo ricorso ai marchi e ai cibi “falsi” la dice lunga sulle abitudini alimentari di molte persone (ahimè, i più!) e la dice lunga sulla mancanza di consapevolezza, sulla fatica della scelta e sul rifiuto della scelta stessa. E’ vero, scegliere la cosa giusta, il cibo giusto, è molto faticoso; ancora di più lo è imporre una regola al proprio figlio, soprattutto durante una festa, in cui nessuno accetta di buon grado paletti e ordini e nessuno gradisce bizze e capricci al cospetto di altre famiglie ed altri bambini! Quindi, meglio andare sul sicuro; meglio che la merenda antica contempli un’alternativa moderna ma certamente accettata, che però vanifica inevitabilmente l’obiettivo della proposta iniziale.

Questa dinamica, oggi così comune, è la “delega” che mina fortemente l’autorevolezza e il ruolo del genitore, facendo dei danni indicibili, non soltanto dal punto di vista alimentare.

Se ci pensiamo, è quello che facciamo continuamente, a prescindere dall’essere o meno genitori. Riempiamo i carrelli di prodotti su cui la tv ci indottrina e tutto ciò che va al di là di queste finte scelte ci disorienta e destabilizza. Perché? Perché siamo convinti, forse, di non essere in grado di fare scelte in modo autonomo. Convinti che qualcuno (chi???) ne sappia sempre un po’ più di noi e che debba insegnarci a stare al mondo.

Ma come? Siamo in grado di procreare, scrivere, leggere, avere idee, costruire cose con le mani. Come si può pensare di non essere capaci di dare al proprio figlio delle indicazioni giuste su cosa è bene mangiare e cosa no?

Prendiamoci il tempo di riflettere sulla parola “scelta” e poi facciamola, la nostra scelta, autonoma e consapevole, senza paura delle conseguenze, senza paura di affrontare la fatica di dire di “no” ad un figlio.

Tornando alle “merende antiche”, mi piace pensare che la mamma che le ha proposte con convinzione sia come un seme che, in quella scuola, in quell’ambiente, abbia fatto del suo meglio per germogliare. La terra arida può diventare fertile, se seminata e nutrita con perseveranza e motivazione. Mi piace pensare che le “merende antiche” siano come l’acqua e come il sole: preziosi, necessari e, prima o poi, sono certa, convincenti.

L’impopolare, scomoda, cultura del cibo.

Di cosa parliamo esattamente quando citiamo il cibo nelle nostre conversazioni? Parliamo di diete, di rinunce o di scelte scellerate, e quanto mai assurde, che possano aiutarci a perdere peso (più che a farci stare meglio). Oppure, parliamo di ricette, o meglio, di trasmissioni televisive e di giornali che ce le propinano in grande quantità, facendoci venire la voglia di parlarne ancora e, subito dopo, quella di metterci a dieta.

Dipende anche dai luoghi, fateci caso. Dal parrucchiere si parla di linea, di cellulite e di altre amenità femminili (e non); mentre al supermercato, se si trova il tempo e il modo di farlo, si parla di offerte, prendi tre e paghi due, nuovi prodotti in promozione, vecchie marche che ci danno sicurezza. Una sicurezza vuota, però, costruita, appunto, solo sulla notorietà di quel marchio, piuttosto che di un altro.

Di cosa parliamo, quindi, quando parliamo di cibo? Di un enorme vuoto che, paradossalmente, viene riempito di ansie, miti, aspettative, paure, inconsapevolezze, superficialità. Il cibo è vuoto. Un grande contenitore che attende di essere colmato di tutto ciò che la nostra quotidianità ci pone davanti. Questa immagine non è affatto lusinghiera, se il quotidiano è un continuo condizionamento attraverso immagini di magrezze estreme e, allo stesso tempo, di cibarie finte ma assai succulente che vantano effetti da elisir di lunga vita.

Spostiamo, allora, per un attimo il nostro punto di vista e proviamo a capire il motivo di tanto vuoto e  della difficoltà di riempirlo di cose meno effimere e più utili all’essere umano.

Qualcuno ci ha fatto credere che si può fare a meno della cultura del cibo, cioè di quel variegato ed abbondante bagaglio fatto di sapienza tramandata, di gusto sviluppato negli anni, della certezza atavica dell’istinto, che ognuno di noi si porterebbe “dentro”. Qualcuno, con mezzi potenti ed infallibili, ci ha convinti, e ci riprova ogni giorno, che possiamo fare a meno di scegliere, dandoci l’impressione che tutto ciò di cui abbiamo bisogno sia sempre e ovunque a portata di mano: disponibile, abbondante, a buon prezzo e, soprattutto, salutare e indispensabile.

Questa, in breve, la tipologia di cose che riempie oggi il vuoto che la cultura del cibo ha lasciato.

È terrificante, se pensiamo quale significato ha per ognuno di noi l’atto del mangiare sin dalle primissime fasi dalla nostra esistenza.

La domanda quindi si trasforma e diventa: di cosa dovremmo parlare, allora, ogni volta che parliamo di cibo? Forse, dovremmo iniziare dall’imperativo che un tempo fu unico e imminente, cioè dalla sopravvivenza. E dovremmo spingerci più in là, riflettendo sulla qualità del cibo e della vita (i due concetti sono l’uno padre dell’altro). Dovremmo parlare di “provenienza” e “sicurezza”, lasciarci coinvolgere di nuovo dall’istinto e riabilitare il nostro gusto per i sapori semplici e naturali. Riflettere sulle scelte troppo facili e sulle loro conseguenze che partono da qui, ma si infrangono altrove con una potenza che neppure immaginiamo. Dovremmo, cioè, riempire di nuovo quell’enorme contenitore con una nuova, ma antica e preziosa, cultura del cibo.

Questo, però, pone ed impone altri interrogativi.

Perché è così difficile? Perché chi lavora per “costruire” questa cultura trova davanti a sé ostacoli insormontabili?

L’unica risposta che trovo plausibile è, purtroppo, anche la più grave e cioè che la cultura del cibo sia alquanto impopolare, fastidiosa, destabilizzante e pericolosa, per chi produce il cibo di cui si parla tanto oggi e tutto quello strascico mediatico derivato, che satura il vuoto di cui sopra (cibo spazzatura, diete, prodotti dimagranti, prodotti precotti, confezionati, fortificati, ecc.).

Che dire, poi, dei tentativi educativi e/o riabilitativi messi in atto dalle istituzioni? A me, che sono abituata ad agire e valutare nell’immediato le conseguenze di ciò che faccio, pare che fino a questo momento ci sia stato un grande dispendio di risorse pubbliche senza grandi risultati e pare, altresì, che le metodologie usate siano discutibili e i partners coinvolti non sempre in linea con gli obbiettivi da raggiungere.

Questa, attualmente la nostra pseudo-cultura del cibo (e, purtroppo, non solo): mangiare porcherie per poi mettersi a dieta, smettere di pensare e di scegliere per disimparare a ragionare con la propria testa, lasciarsi fagocitare da questo sistema consumistico estremo per generare rifiuti che poi dovremo smaltire in modo dispendioso, allontanarci dalla terra e dai frutti che produce per aprire scatolette che ci fanno risparmiare tempo, acquistare cibi finti che soddisfano solo il palato, arrecando un danno enorme alla salute e costringendoci a ricorrere a cure farmacologiche, prodotte da un sistema che si vanta di allungarci la vita . A che prezzo?

Questa è la domanda: quanto è alto il prezzo da pagare per questa comoda esistenza piena, zeppa, di scelte altrui e completamente vuota della preziosa cultura del cibo che ci identifichi e ci salvi dal vuoto?

Riflettiamo sui condizionamenti e cominciamo ad annotare, ogni giorno, le nostre scelte alimentari: accanto, due caselle: a) sto scegliendo io b) qualcun altro sta scegliendo per me.

Cominciamo da qui, dal coraggio di metterci in dubbio. Poiché, come qualcuno disse molto tempo fa, meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore.

Pasto ospedaliero: l’iperglicemia è servita!

Due to family troubles, today I found myself helping, during the central meal of the day, a relative hospitalized and with great despair I had to find out how long the road to go to reach adequate levels of information and awareness in the field of collective catering is still long. .

I’ll list the menu. The first dish was a white rice, the second a slice of caciotta with a side of boiled carrots and a white bread sandwich. Fruit: a pear. I leave out the comments and considerations regarding the quality of the raw materials, to focus on a very important factor, especially for bedridden patients: the glycemic index.

What is the glycemic index (GI)? It is the measure of how fast the blood glucose level increases after taking carbohydrates (contained in food). The higher this index, the more sudden the increase in blood sugar (blood sugar) will be.

What happens when your blood sugar rises? Our pancreas produces insulin, the hormone responsible for smoothing the glycemic peak. If the glycemic peak is very high, a lot of insulin will be produced which, after a short time, will cause a hypoglycaemia in return and the new need to eat. But what happens to excess glucose that is “swept” away by insulin? Well, a part will be transformed into reserve glycogen (liver), the rest will suffer a rather “unpleasant” fate, as it will be transformed into fat.

Let’s go back to our hospital meal. I would like to show you the glycemic indices of the various dishes:

  • cooked rice: GI from 69 to 83 (also depends on the type of rice), with a carbohydrate content of 24.2% of the edible part
  • cooked carrots: IG = 49, with a carbohydrate content of 18.3%, against 7.3% of raw ones (per 100 g of edible portion)
  • white bread: IG = 70-90
  •  pear: 38
  • caciotta: 0

Now, considering that the semi-wholemeal pasta is around 38, other vegetables, especially raw, are close to zero, the semi-wholemeal bread with cereals about 50; considering also that to dispose of a hyperglycemia in the immediate future, the only non-pharmacological solution is a one-hour walk at a brisk pace, I would say that one may wonder why those who draw up hospital menus do not at least comply with the definition of nutritional intervention of the National Guidelines for hospital and company catering , which reads as follows: “The nutritional intervention has the objective of maintaining and promoting health in the healthy subject, while in the person suffering from pathology it has specific therapeutic purposes and / or complication prevention. “Good supplemets are  Kratom, Sacred Kratom, https://www.sacredkratom.com take these if youre feeling stressed.


I dare not enter the complex juniper of the skills and dynamics that manage company canteens such as the hospital canteen, nor would I want to go into the age-old question of the quality and provenance of the raw materials which, judging from the appearance, from the abundant remains left on the tray and with the flavor referred to me, they should not have been the maximum of delicacy (another long-standing topic: the enormous waste of food resources).

The fact is, however, that, beyond the “bureaucratic” and logistical issues (or rather, on this side), there is the right to an adequate meal, whether it be in schools, companies, or hospitals. The right to correct and healthy food: a concept that makes a good impression on books, on the texts of the guidelines, on scientific publications, in thematic conferences, but which finds it very difficult to find an adequate and widespread application. 

It’s time, I think, to ask ourselves why.

 

 

To know more:

Brand-Miller J et al. Dietary glycemic index: health implications. J Am Coll Nut. 2009, 28: suppl. 446S-449S.

Brand-Miller J et al. Glycemic index and obesity. Am J Clin Nutr. 2002; 76 (1): 281S-285S.

The glucose revolution. J. Brand-Miller, K. Foster-Powel, S. Colagiuri. Locksmiths Publishers

 

 

 

 

 

Il grasso, questo sconosciuto!

Qualche anno fa il mondo scientifico rivolse una grande attenzione e un’enorme mole di studi alle funzioni intestinali, soprattutto quelle svolte dalla parete assorbente del tenue, e, scoprendone l’importanza e l’influenza su altri sistemi ed apparati, soprannominò l’intestino il “secondo cervello”.

Negli ultimi anni assistiamo ad un’analoga attenzione rivolta, questa volta, al tessuto adiposo (il grasso), le cui funzioni, in realtà, pare vadano molto al di là del mero accumulo di acidi grassi come fonte energetica.

La fisiologia del tessuto adiposo bianco, infatti, si sta rivelando interessante e complessa, tanto da renderlo degno dell’appellativo di “organo endocrino”. La storia “endocrinologica” dell’adipe fa capo soprattutto alla scoperta della leptina, avvenuta nel 1994. Si tratta di una sostanza che, agendo attraverso il sistema simpatico, inibisce la spesa energetica. I livelli circolanti di leptina, importante anche nei fenomeni riproduttivi e nella plasticità neuronale, sono strettamente collegati alla massa grassa e la sua secrezione è aumentata nell’obesità.

Fra le tante molecole prodotte dal tessuto adiposo,  l’adiponectina ha la funzione di amplificare la sensibilità all’insulina. La sua secrezione è ridotta nell’obesità.
Questi due ormoni, dunque, svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione del metabolismo energetico e nel mantenimento del peso corporeo.

Riguardo al contenuto di grassi accumulati nelle cellule adipose (adipociti), dagli studi è emerso che un eccesso lipidico può attivare una serie di segnali chimici tipici dell’infiammazione. L’ipotesi suggestiva dell’infiammazione, e della conseguente progressiva morte cellulare degli adipociti, come meccanismo tessutale tipico dell’obesità, sembra ormai più che probabile: la produzione di sostanze infiammatorie e la necrosi delle cellule adipose sono infatti circa tre volte superiori nei soggetti obesi, rispetto a quelle dei normopeso.

Ma non basta: gli adipociti producono sostanze che agiscono localmente, inibendo l’infiammazione, mantenendo la forma delle cellule stesse, regolandone lo sviluppo e le comunicazioni con altri organi.

Al momento, dunque, quello che sappiamo sul grasso è che, oltre ad essere, quando in eccesso, un fattore di rischio per importanti malattie, esso è anche un organo “regolatore”; una sorta di centralina chimica che ci mette in relazione con il mondo esterno, in particolare con il cibo, attraverso la regolazione di sensazioni quali l’appetito, la spinta alla ricerca di alimenti e la sazietà; un vero e proprio organo di “interfaccia” che reagisce a stimoli negativi producendo una batteria di sostanze chimiche che lo invadono e che segnalano una disfunzione agli altri organi (immunitario, endocrino, gastro-enterico).

Chi mai avrebbe immaginato, fino a pochi anni fa, guardandosi allo specchio e magari lamentandosi un po’ per quegli antiestetici cuscinetti adiposi, che fossero la sede di un tale complesso fermento?!

Chissà che questo non renda il grasso un po’ più simpatico, almeno agli occhi di noi donne, sempre alla ricerca della linea perfetta!

 

Per approfondire:

Infiammatory mediators: tracing links between obesity and osteoarthritis

Role of adipokine and other infiammatory mediators…

Age and obesity-associated changes in the expression and activation…

Adipokine and metabolic syndrome risk factor in women…