Archivio mensile:aprile 2014

Storie alla stufa

olioNelle storie dei nonni c’è sempre una fata buona, un lupo cattivo e una bambina sperduta. Ancora mi chiedo come mai in quelle che raccontava mia nonna c’era altro: Tito il cane pestifero, Mammi la gatta ubriaca, Giufà il pastore ingordo e molti altri soggetti che ricordo con affetto, sorridendo fra me e me.

Davanti alla sua stufa a legna non si narravano storie di principesse sfortunate e di principi azzurri in calzamaglia, ma di furti di salsicce e rocamboleschi inseguimenti nei vicoli di paese.

Devo ammetterlo: erano storie parecchio interessanti. Io e i miei fratelli stavamo ad ascoltarle per ore, sgranocchiando la merenda insieme al tempo e alle parole.

Spesso lo spuntino pomeridiano si prolungava fino a tardi; ché mangiare masticando racconti, si sa, è assai sfizioso. D’altra parte, ciò che mangiavamo davanti alla sua stufa faceva venire a nonna la voglia di raccontare.

Un giorno, mentre facevamo merenda con pane casalingo accompagnato a frutta secca, ci raccontò di un frate ghiotto, Fra Felice, che passava il suo tempo in cucina a scucchiaiare ed impastare. Ottimo cuoco e amante dei distillati, era ghiotto di tutto, ma soprattutto di pane e noci. Era la storia, questa, di un frate mangione e di una balia affamata, la gatta Mammi, che aveva da sfamare ben otto cuccioli: quattro suoi e altri due di una gatta morta schiacciata sotto un’auto. Mammi, un giorno, entrò di soppiatto in cucina e si avvicinò senza fare rumore alla sedia dove Fra Felice aveva appoggiato un bel pezzo di lardo da speziare. Sul pavimento, là vicino, una casseruola piena … d’acqua. Più della fame, poté la sete e Mammi si dissetò. Ma non d’acqua: bevve il nocino del frate e si ubriacò. Inseguita da Fra Felice, arrancò barcollando verso la porta e fuggi a gambe levate, un po’ storta, un po’ strana, a zig zag!

Un pomeriggio in cui la merenda sapeva di formaggio, nonna raccontò di Giufà il pastore che non riusciva mai a vendere le sue caciotte perché se le mangiava prima. E quando ci raccontava del cane Tito, invece, era col pane e olio che si faceva lo spuntino. Tito era pestifero. Il suo padrone, invece, parsimonioso. Per non sprecare l’olio che gocciolava dalla bottiglia s’era inventato un collare di spugna da infilare nel collo dell’ampolla e da strizzare una volta che fosse imbevuto a dovere. La spugna era ora rosa, ora azzurra o verde pisello e Tito, pestifero, non riusciva a sopportarla. Se le capitava a tiro la mordeva e la tirava fino a far rotolare giù tutta la bottiglia e…addio olio!

Quando nel mio lavoro parlo con i bambini e chiedo loro cosa mangiano a merenda spesso mi indicano prodotti con nomi che non ricordano nemmeno da lontano le mie merende. Sento parlare di gocciole e pangocciole, fruttoli e fruttini, fetteallatte e sottilette e, confesso, l’unica cosa che mi viene in mente è uno scioglilingua un po’ sciocco che da bambina mi raccontavo per esercitarmi con le parole: frutta che nella fretta frani nel fango, frullando frettolosamente un frappè… Null’altro mi rammentano questi nomi cui sono avvezzi i bambini d’oggi: né una favola, né un sogno, né un ricordo.

Allora, mi chiedo, quali storie potranno raccontare ai loro figli?

Pubblicato su manidistrega.it

Pericolose interpretazioni

cropped-IMG_1909.jpgHo sempre pensato che la lingua italiana abbia l’immenso privilegio delle origini antiche e la generosità di espressioni molto variegate e versatili. È una lingua bellissima, ricca di sostantivi, aggettivi, sinonimi che si prestano a diversi significati, ad espressioni sfaccettate e sfumate. Rifletto spesso sulle parole, sulla loro origine, sul loro suono; e ce n’è una su cui da tempo mi arrovello: dieta.

Gli antichi greci, coniando il termine diaita, non avevano di certo in mente né il concetto di caloria né quello restrittivo di rinuncia alimentare finalizzata al dimagrimento.
È noto, invece, che questo termine, da cui oggi deriva il nostro abusatissimo “dieta”, significasse cura dello stile di vita per mantenersi in salute. Che ne è stato col passare del tempo di questo “senso” così prezioso?
Questa parola così piccola, col suo fardello di senso da portarsi dietro, generazione dopo generazione, epoca dopo epoca, moda dopo moda è arrivata fino a noi assolutamente irriconoscibile. Ed eccoci qui, a comprare libri su questa dieta o quell’altra, a metterci a dieta prima dell’estate, a prendere al volo offerte fantastiche di consulenze gratuite e diete on line, ad affidarci ad “house” più o meno specializzate che ci vendono prodotti dietetici a peso d’oro.

È accaduto che ognuno di noi, almeno una volta nella propria vita, si sia ritrovato a leggere mestamente un foglietto in cui da una parte figurano gli alimenti dietetici e dall’altro i grammi e le calorie corrispondenti. È accaduto e accade che inimmaginabili “esperti” abbiano ritenuto legittimo “sfornare” diete: chiunque abbia pensato che occuparsi (professionalmente o meno) di bellezza, salute, corpo, terra e cucina possa automaticamente rendere competenti sul tema “nutrizione” e, dunque, abilitati a fornire piani alimentari e dispensare consigli di dietistica. In fondo – si vocifera – per perdere peso basta mangiare meno e fare ginnastica!
Questo è accaduto, modificando così profondamente il significato di quella piccola parola.

Quante pericolose interpretazioni!

Se, per ipotesi fantastica, potessimo prescrivere una dieta dimagrante a una pecora, innegabilmente e irrimediabilmente erbivora, credo che i danni sarebbero ridottissimi; ci limiteremmo in fondo a farle perdere peso (oltre che a generare il cruccio sacrosanto della pecorella in questione!). L’essere umano, invece, avendo accesso ad una miriade di nicchie alimentari, è fornito di strumenti sofisticati di “adattamento nutrizionale”, grazie ai quali ha superato fasi storiche che hanno messo a dura prova la sua sopravvivenza. Egli, onnivoro e fisiologicamente neofobico, si ferma, diffidente, di fronte ad un cibo sconosciuto e lo assaggia con prudenza (pensiamo ai bambini!), valutandone eventuali effetti pericolosi. Questo significa che il cibo, per l’uomo, ha connotazioni complesse, antiche, articolatissime, come ad esempio quella sociale ed emozionale, da cui, volente o nolente, non può prescindere.

Le restrizioni, l’eccessivo controllo nella scelta alimentare, il totale disinteresse per la qualità, la provenienza e il gusto del cibo fanno parte del nuovo, dissacrante e distruttivo, significato della piccola parola diaita che, a nostra insaputa o a nostro dispetto, sta devastando il rapporto che l’uomo ha faticosamente e “sperimentalmente” costruito con il cibo di cui si nutre. Quest’ultimo, dunque, è diventato ora un nemico ora un farmaco; ora una pozione magica ora una panacea. Viene addizionato di vitamine, minerali e omega tre per essere “funzionale” e potenzialmente “protettivo”; viene demonizzato o mitizzato; diventa oggetto di sproloqui e di sentenze lapidarie, sui giornali, in tv, sui social; assurge a tema centrale di trasmissioni televisive propinateci compulsivamente ed ossessivamente. Senza pensare alle conseguenze. Senza immaginare, tanto meno spiegare, la meraviglia e la complessità di ciò che il cibo fa dentro ognuno di noi, né la strada che esso ha compiuto per arrivare fino al nostro piatto.
Nutrire e nutrirsi, ovvero prendersi cura di se stessi e degli altri. Perché discuterne in un salotto televisivo? Perché utilizzare l’argomento per titoli allarmistici sui giornali? E’ la Scienza, semmai, che deve occuparsene facendo molta, moltissima attenzione a non attentare ai significati originali e restituendo a tutti noi il vero “senso” di cose e parole.

Diaita. A me questa parola piace. Continuo a scriverla, a pronunciarla a voce alta e a godere del suono che produce. La scrivo sui miei quaderni, sull’agenda, sui miei libri…Diaita, la cura di sé, l’istinto e il piacere di mantenersi in salute. E il cibo? Dove collochiamo, allora, questo preziosissimo strumento di sopravvivenza? Insieme alla mia parola preferita, nella scatola mnemonica dell’ “istinto”, accanto a quella della “consapevolezza” e dell’ “ascolto di noi stessi”, senza cadere nelle trappole commerciali, senza lasciarsi tentare dalle strade in discesa che conducono ad obiettivi effimeri, senza disimparare chi siamo e da dove veniamo e, soprattutto, senza permettere a nessuno di cambiare il senso di cose così importanti come il nostro rapporto con il cibo.

foto di Giusi D’Urso