Archivio della categoria: Nutrizione

Il cibo e le ossa: prevenzione a tavola!

Il metabolismo osseo è molto complesso e dipende strettamente dallo stile di vita. È ormai noto da tempo, infatti, quanto l’esercizio fisico quotidiano sia fondamentale nel mantenere in salute le ossa e le articolazioni. Anche l’alimentazione svolge un ruolo importante: sappiamo, ad esempio, che le fonti alimentari di calcio non devono mancare nella nostra dieta quotidiana e che un eccesso di proteine animali può influenzare negativamente il metabolismo osseo, in particolare la fissazione di calcio alla matrice ossea. Le donne sono più soggette degli uomini alla demineralizzazione, in quanto, con l’avanzare dell’età e il conseguente calo di estrogeni, viene meno il controllo ormonale sulla quantità di calcio legata all’ osso; aumenta, dunque, la porosità del tessuto osseo che, di conseguenza, diviene fragile e a rischio di fratture.

Oggi, purtroppo, le patologie del tessuto osseo si riscontrano anche in giovane età, a causa di una cattiva alimentazione e di uno stile di vita sedentario. Prevenirle è possibile, basta imparare ad essere attivi e a mangiare correttamente.

Di questo e di molto altro parleremo il 6 dicembre. Vi aspetto!

Conoscere il cibo

 

 

 

Mangiare è un’azione molto frequente che ci accomuna tutti. Durante la giornata ci nutriamo più volte e in genere lo facciamo senza chiederci nulla o quasi riguardo a ciò che ingurgitiamo. Siamo abituati a mangiare tutto quello di cui abbiamo voglia in qualsiasi periodo dell’anno ed una delle poche cose che ci interessano quando acquistiamo il cibo è il prezzo. Nutriamo i nostri bambini con alimenti che non somigliano a nulla di ciò che mangiavano le nostre nonne, ma tutto questo ci sembra talmente normale che continuiamo ad acquistarli e a farne scorta nelle nostre case, condizionati dalla paura di rimanere senza e di ritrovarci a dover improvvisare una merenda, magari affettando del pane e spalmando della marmellata.

Non credo di esagerare affermando che mangiare è diventata un’attività poco partecipata, molto automatica e decisamente scollegata dal resto della nostra esistenza.

Eppure, fino a qualche decennio fa, sedersi attorno a un tavolo e condividere ciò che con passione e fatica qualcuno aveva prodotto nel campo poco distante era la normalità. Così come lo era relazionarsi agli altri condividendo le pietanze di un pranzo o di una cena. Oggi, sembra che il frastuono del marketing e la fretta che incombono costantemente sulla quotidianità, abbiano offuscato, se non addirittura cancellato, i significati molteplici, vari e profondi, che il cibo ricopre per ognuno di noi.

Offrire il cibo significa prendersi cura dell’altro mescolando i propri stati d’animo e le proprie attenzioni ad ogni pietanza. La buona tavola rinsalda i rapporti e stimola il raccontarsi, facilitando l’atteggiamento di apertura e di curiosità verso chi ci sta accanto. La cucina è, dunque, importante luogo d’espressione; essa svela, non nasconde, enfatizza le qualità di ogni relazione. E se in cucina arrivano materie prime locali con cui preparare il buon cibo da condividere, essa diviene anche il luogo elettivo di identificazione con il proprio territorio, la sua storia e le sue tradizioni. Il cuore della casa, l’ambiente fisico intorno al quale ruota la vita della famiglia, è come un grembo accogliente in cui il cibo della terra accresce ed amplifica il suo valore quale strumento d’identificazione e socialità.

Per questo, e molto altro ancora, mangiare dovrebbe implicare una scelta, anzi molte. Acquistando un cibo dovremmo conoscerne la provenienza e la qualità; chiederci se è sano o meno, qual è il suo effetto sulla nostra salute, quale l’impatto ambientale del suo percorso produttivo; sapere se è stato o meno trattato e adulterato, decidere in che modo cucinarlo e con chi condividerlo. Insomma, comprando il nostro cibo dovremmo essere animati da spirito critico, istinto e consapevolezza; fare lo sforzo, quindi, di porci domande, di trovare risposte, di pretendere che esso sia il migliore per noi e per le persone che amiamo.

Così, mettendo al centro la relazione profonda e reciproca fra gli uomini e quella fra gli uomini e il lavoro della terra, il cibo non sarebbe oggetto di acquisti automatici e superficiali, ma diverrebbe una ragione più che valida per difendere e valorizzare il contesto in cui esso viene prodotto, poiché da questo dipende la salubrità e la bontà dei prodotti alimentari; da questo dipende la nostra vita.

Dimensione Agricoltura ottobre 2012

 

I cereali, cibo antico e quanto mai moderno

La produzione e il consumo dei cereali risalgono ad epoche remote: quasi certamente, infatti, costituiscono le prime piante utilizzate dall’uomo in campo alimentare. Il nome “cereali” deriva da Cerere, la dea latina protettrice delle messi, nume tutelare dei raccolti, divinità materna della terra e della fertilità.

Il valore nutrizionale dei cereali è legato al loro contenuto in amido e proteine e al basso contenuto di grassi. I nutrizionisti ne consigliano l’uso quotidiano e ne sottolineano le qualità nutrizionali. Soprattutto se integrali, i cereali contribuiscono in modo importante ai fabbisogni del nostro organismo. La fibra, in particolare, è da considerare un valore aggiunto, in quanto, in un pasto completo, limita l’assorbimento di zuccheri e grassi, oltre a fornire alla flora batterica intestinale sostanze preziose per il suo equilibrio.

Queste caratteristiche rendono i cereali ottimi alimenti energetici, facilmente integrabili ed abbinabili ad altri, così come avviene nei piatti della cucina mediterranea, soprattutto toscana. Basti pensare alla panzanella, alla zuppa, alle insalate di pasta e di riso, alle minestre di pasta e legumi.

Oggi, i cereali sono spesso al centro di disquisizioni scientifiche relative all’intolleranza permanente al glutine (celiachia) e alla sensibilità al glutine (gluten sensitivity), patologie legate alla presenza di particolari proteine (le gliadine, che a contatto con l’acqua producono il glutine) presenti in alcuni, ma non tutti, i cereali. Ne sono sprovvisti riso, mais, amaranto, manioca, miglio, sorgo.

Il glutine è una sostanza collosa ed elastica che conferisce alle farine una migliore propensione all’impasto. L’intolleranza al glutine è geneticamente determinata e, probabilmente, rappresenta l’incapacità del genoma umano di adattarsi, nel corso dei millenni, ai cambiamenti in composizione del grano ed altri cereali di uso comune.

Diecimila anni fa, infatti, l’uomo non conosceva il glutine. I nostri progenitori si nutrivano di caccia, pesca e raccolta di frutti e radici. Solo più recentemente (nel Neolitico) le tribù nomadi divennero stanziali, iniziando la coltivazione dei cereali primitivi, poveri di glutine. Nei millenni l’uomo ha selezionato i cereali che ridotti a farina si impastavano meglio. La spiga moderna dà un’ottima resa, quindi, perché è ricca di glutine. Non tutti gli uomini, però, hanno saputo adattare il loro patrimonio genetico a questa trasformazione dell’alimentazione di base e, pertanto, non “riconoscono” il glutine come sostanza assimilabile, ma come sostanza estranea da combattere producendo anticorpi.

Recentemente c’è un grande interesse nei confronti del grano antico e, in generale, del ritorno a scelte alimentari più vicine alle esigenze del nostro organismo: maggiore consumo di vegetali, legumi e cereali poveri di glutine, minore introito di proteine animali. Un ritorno, dunque, alle buone pratiche alimentari che un tempo hanno reso possibile la nostra evoluzione.

Dimensione Agricoltura luglio/agosto 2012

L’orto, il cibo, i bambini e… il basilico!

 

 

 

I bambini di oggi, si sa, a parte qualche eccezione, non amano la verdura. Ma se sulla tavola apparecchiata i vegetali non mancano mai e i genitori li consumano quotidianamente, il bambino impara che può fidarsi, ne avrà presto curiosità e finirà col mangiarli normalmente.

I bambini di oggi, si sa, amano i videogiochi, ma se li portiamo in campagna e li facciamo “giocare” a fare i contadini, seminando e accudendo la terra, si compirà una magia bellissima e quanto mai inattesa: i bambini si sentiranno perfettamente a loro agio e saranno ansiosi di veder nascere le loro piantine e raccogliere i frutti del loro lavoro.

Nell’orto i bambini cercano e trovano soluzioni ai problemi, sperimentano e valorizzano il legame con il sapere antico; imparano che c’è un tempo e un ciclo per ogni specie coltivata e che i frutti maturati sulle piante sono più sani e più nutrienti di quelli raccolti anzitempo e trasportati per lunghe distanze. Imparano che coltivare la terra significa lavorare con continuità e tenacia, recependo il valore di un’attività che troppo spesso, oggi, viene lasciata ai margini e considerata di seconda categoria.

Se poi il prodotto del loro gioco-lavoro trova un senso a tavola, allora il cerchio si chiude intorno alla consapevolezza di aver fatto una cosa grande ed utile: produrre cibo per sé e per gli altri.

Il basilico di Giulia.

Giulia ha seminato minuscoli semi di basilico in un piccolo vaso ed ha atteso con pazienza lo spuntare delle prime piantine. La terra umida e il primo sole di primavera l’hanno premiata e lei non vede l’ora di vedere delle belle foglie verdi e profumate riempire il suo vaso. Vuole usarle per aromatizzare la panzanella, piatto povero della cucina toscana.

Intanto si è informata sulle caratteristiche della sua pianta e ha scoperto che è originaria dell’Asia e che possiede buone proprietà antisettiche e antidolorifiche. Inoltre, il suo olio essenziale stimola le difese immunitarie e facilita la digestione. In India è considerata una pianta sacra ad alcuni dei, mentre nelle Filippine si utilizza ancora oggi per indurre il parto.

Il suo nome prende origine dal termine greco basilikòn che significa “regale” e nelle civiltà antiche il suo uso è legato al culto funebre, per la presenza di olii essenziali che conferiscono alle foglie un odore molto particolare e gradevole. In barba all’uso lugubre del passato, Giulia annusa il suo basilico appena nato e pregusta la panzanella. Del resto, povero o no, si tratta di un piatto molto diffuso e “cantato” non solo in Toscana.

“Pagnotta paesana un po’ intostata,

cotta all’antica, co’ la crosta scura,

bagnata fino a che nun s’è ammollata.

In più, per un boccone da signori,

abbasta rifinì la svojatura

co’ basilico, pepe e pommidori.”

Aldo Fabrizi

Dimensione Agricoltura giugno 2012

 

Cibo, salute e benessere al femminile

Donna è la prima nutrice, dal grembo al seno al primo cucchiaino, colei che provvede alle cure e al sostentamento del proprio piccolo. Donna è l’adolescente che si guarda allo specchio e non si riconosce più nella vita stretta e nei fianchi larghi che la preparano alla fisiologica funzione della procreazione. Donna è la cuoca di casa, la nonna o la suocera delle lasagne domenicali, così come la mamma che prepara il pasto caldo della sera e mette tutti intorno al tavolo. Donna, infine, è Eva, che porge la mela ad Adamo.

Da sempre la donna ha avuto un legame inscindibile con gli alimenti e con il loro consumo. Ecco perché il cibo ha in generale una valenza del tutto particolare nel mondo femminile.

È interessante notare come la preparazione quotidiana dei pasti per i propri cari abbia assunto nei secoli una valenza emotiva profonda: la donna è divenuta nel tempo fautrice di modificazioni alimentari attraverso metodi conservativi e cotture particolari. Attraverso la produzione di pietanze e pasti la donna ha esercitato nei tempi un potere univoco, riempiendo vuoti, tessendo relazioni e compensando ingiustizie. È stato un percorso lungo e travagliato quello che ha fatto del rapporto fra donne e cibo il connubio che oggi riconosciamo essere così importante.

La civiltà dell’opulenza espone tutti all’offerta eccessiva di cibo e contemporaneamente alle immagini insistenti e penetranti di corpi perfetti. Quindi, accanto all’esaltazione della forma corporea e al benessere vi è la demonizzazione di molti cibi, definiti “ipercalorici” ed ingrassanti: il cibo, dunque, diventa nemico della forma fisica ed assume connotazioni che lo snaturano e lo allontanano dai concetti atavici di convivialità, identità e condivisione.  L’atto del mangiare, dunque, si annoda strettamente al problema dell’immagine di sé, creando spesso distorsioni pericolose.

Questo articolo è stato ispirato da numerose letture, interessanti e coivolgenti, fra cui Il cibo una via di relazione (Savorani) e Semiofood, Comunicazione e Cultura del cibo (AA.VVV).

 

Di questo e molto altro si parlerà nell’incontro “Cibo, salute e benessere al femminile”, che si terrà sabato 6 ottobre nella sede della CIA di Pisa, in via Malasoma 22 (zona Ospedaletto). L’incontro propone percorsi e strategie per ritrovare e mantenere un sereno rapporto fra cibo ed immagine corporea, scegliere bene gli alimenti, associarli nel modo più adeguato, apprezzare le emozioni legate all’atto del mangiare. I partecipanti avranno la possibilità di confrontarsi su queste tematiche e di acquisire nuove nozioni e strategie, grazie alla presenza di due professioniste (Giusi D’Urso, biologa nutrizionista e Cristina Cherchi, pedagogista clinica). Nell’arco del pomeriggio, oltre ad una lezione teorica, verranno approntati dei piccoli laboratori, seguiti da una degustazione a tema.

 

 

 

 

 

 

 

 

Modello alimentare mediterraneo, doppiamente valido, ma purtroppo ormai scomparso!

 

 

 

 

 

 

It is well known that the Mediterranean nutritional model is perfectly consistent with the nutritional indications of the guidelines produced by the most important and authoritative societies and scientific institutions of our time. It, we remember, is based on a high consumption of vegetables, legumes, fruit and nuts, olive oil and cereals (once, almost all wholemeal); moderate consumption of fish and dairy products; limited meat consumption.
It is in Greek culture that the Mediterranean diet has its roots, which developed, over the centuries, as a need for thrift during very poor historical eras that have drawn rules and ideas for survival from peasant culture, especially in our south.
The eating habits of the southern peasants spread during the Middle Ages and, passing down from century to century, they reached the Second World War, inspiring and intriguing Ancel Keys, American doctor, who was struck by the eating habits of the Cilento population, once known landed in Paestum following the Fifth Army in 1944. He thus became the main theorist of the Mediterranean diet, indicating and defining it as the preventive nutritional model for cardiovascular and metabolic diseases. From Keys’ studies to date, many scholars have confirmed the important correlation between the Mediterranean diet, good health and longevity.  The good parts are Kratom, Kratomystic, https://kratomystic.com when taken in the right amounts 
One of the most important recent studies is that conducted by   EPIC(European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition); this is the largest population study conducted on the relationship between diet and health. The results are clear: fruits and vegetables reduce mortality in the elderly, while mortality increases in those who consume more saturated fats (i.e. those of animal origin; however, remember that even tropical oils are rich in saturated fats despite being vegetable). The “Mediterranean” nature of the diet was judged by identifying “Mediterranean” food groups (vegetables, legumes, fruit, cereals and fish) and Mediterranean behaviors, such as higher consumption of unsaturated fatty acids (mono and polyunsaturated) than saturated. It has been seen that the more a nutritional model of the sample populations approaches the Mediterranean, the higher the percentage of longevity.

Today, however, it is important and urgent to evaluate a nutritional model also with respect to its sustainability. There are many studies relating to the environmental impact of each food and the way it is consumed. The various studies show the importance of evaluating particular environmental indicators, such as the emission of greenhouse gases (Corbon Footprint), the water footprint (Water Footprint), the ecological footprint (Ecological Footprint).
Well, even from this point of view, the eating habits of central and southern Italy in the 1950s are virtuous. In fact, fruit, vegetables and cereals, if local and seasonal, have a much less ecological impact than meat. In particular, the production of beef, essential raw material of fast food dishes, has a huge environmental impact; just think that it takes 100 grams of vegetable protein to get 15 grams of animal protein from a cow or pig. Some time ago, in Il Manifesto, Francesca Colasanti wrote “… a world populated by a billion cattle, an immense herd that occupies 24 percent of the earth’s surface and that consumes a quantity of cereals sufficient to feed hundreds of millions of people: the human species, if it wants to save itself and the planet that hosts it,
On the sustainability of meat consumption there are many studies and essays in the literature on which it is possible to find information, starting from “Ecocide” , a truly incisive text, by Jeremy Rifkin published in 1992.

We are in Italy, the cradle of the Mediterranean diet, you will tell yourself, what’s the problem, then? There is more than one problem and we all know it. But in order not to make exhausting lists I will focus on one, the basic one.
Don’t be surprised, at this point, if I assert that the Mediterranean diet, just as Keys had exalted it in his studies from the 1950s on, no longer exists. It has been supplanted by a hodgepodge of food choices, a very unfortunate fruit, of the globalization of nutritional models from overseas. The Mediterranean diet has remained in our heads, like a beautiful image of the past, of which we are hypocritically proud.
In recent decades, drastic changes in the style of food consumption have occurred in our country that have paved the way for the consumption of industrial products, nutritionally poor and highly adulterated. But also the basic foods of our original food model have changed: we think of flour, olive oil, wine. Every day, in newspapers we read about adulterations and scams about these and other components of the diet.
It is therefore difficult to think of being in the right place at the right time if we do not do something to change this trend. After all, it is not a question of inventing something new, but of rediscovering our origins and enhancing them. We are still a country “geographically” suitable for the Mediterranean food model, provided we are ready for cultural change, without which no revolution, much less that of food, will never be possible.

To know more

  • Martínez-González MA, de la Fuente-Arrillaga C, Nunez-Cordoba JM, Basterra-Gortari FJ, Beunza JJ, Vazquez Z, Benito S, Tortosa A, Bes-Rastrollo M. Adherence to Mediterranean diet and risk of developing diabetes: prospective cohort study. BMJ 2008; 336 (7657): 1348 -1351
  • Sofi F, Cesari F, Abbate R, Gensini GF, Casini A. Adherence to Mediterranean diet and health status: meta-analysis. BMJ 2008; 11: 337-344.
  • Mediterranean diet and cardioprotection. Raffaele De Caterina. The CNR notebooks. Primula Editrice.
  • Eating Planet 2012. BCFN. Edizioni Ambiente (from which the image of the double pyramid is taken).

 

 

Prevenzione e comunicazione: discipline imperfette!

spuntino.jpgFare prevenzione, oggi, non va di moda. Gran parte del mondo “sanitario” è fortemente tesa alla cura. Basti pensare alla presenza ingombrante delle case farmaceutiche, di certa chirurgia, e in generale alla tecnologia utilizzata dalla medicina.

È rassicurante, certo, che per quasi tutte le più comuni patologie, oggi esista una terapia, un intervento, un trattamento altamente specializzato che possa arginare, e in molti casi, guarire una malattia.
Ma la prevenzione, disciplina assai lungimirante e preziosa, rimane ancora stretta a un angolo, come fosse poco degna di attenzione e considerazione.

Nessuno mai, si sa, ringrazierà quell’operatore che, con un intervento preventivo, è riuscito ad evitare un infarto. Mentre tutti saranno pronti ad applaudire l’ottimo e provvidenziale cardiologo che avrà salvato il paziente dall’infarto acuto.
Triste destino, insomma, quello di chi fa prevenzione. E ancora più triste di chi predica prevenzione a tavola, credetemi!

Tuttavia, credo che attraverso la buona informazione sia possibile fare arrivare alle persone la percezione corretta di ciò che fa un operatore di prevenzione e dell’utilità della sua professione. Uno dei problemi credo sia l’aggettivo che connota l’informazione: buona, pessima, fuorviante, corretta, infondata, adeguata, veritiera, ecc.

Troppo spesso, difatti, certa stampa sacrifica la verità, la meticolosa e corretta descrizione degli argomenti, allo scoop, al delirio della notizia a tutti i costi. E così, il danno apportato da certe diete iperproteiche passa in secondo piano, cedendo il passo alla notizia che le stesse diete hanno fatto perdere peso a questa o a quella star televisiva o ad un vanesio presidente del consiglio; oppure, l’annosa questione dei disturbi del comportamento alimentare, in aumento fra i giovanissimi, appare cosa secondaria di fronte allo scoop che una delle più note attrici di Hollywood ha sfilato sul red carpet mostrando in pubblico una magrezza assai sospetta.

Forse, rifletto, la divulgazione scientifica (perché di questo si tratta) in materia di prevenzione merita maggiore attenzione e competenza. Forse bisogna partire dal linguaggio degli stessi operatori, dal loro comportamento e dal loro ruolo. Chi rimane arroccato sulla sua cattedra o rinchiuso nel suo laboratorio di ricerca ha ben poche speranze di farsi comprendere dai non addetti ai lavori, giornalisti compresi. Chi si ostina ad usare un linguaggio tecnico per spiegare cose utili a tutti non ha alcuna possibilità di divulgare il suo sapere, anzi, rischia fortemente che questo ne esca deformato e, alla fine, poco aderente alla realtà e poco fruibile dai più.

Sapere e far sapere sono due cose ben diverse. Così come scrivere e comunicare. Si può sapere molto senza riuscire a trasmettere la propria competenza; si può scrivere benissimo senza riuscire a comunicare un bel niente.

Per tornare alla prevenzione, dunque, sebbene essa faccia poco scoop, sforziamoci di comunicare gli strumenti per praticarla in modo semplice e accessibile; e pretendiamo che sia riportata dai mezzi di informazione in modo corretto, aderente, coerente e mirato.
Così, forse, potremo sperare di leggere ancora da qualche parte uno slogan, caro a chi fa il mio lavoro, sparito da tempo da giornali e tv: “prevenire è meglio che curare”. Ve lo ricordate?

 

 

 

Obesità e magrezze estreme: due facce della stessa medaglia

La primavera è il periodo dell’anno in cui si fa un gran parlare di diete, pancia, grasso, cellulite e peso forma. Mettersi a nudo, si sa, è cosa assai faticosa, se il rituale balneare diventa una passerella per addominali, bicipiti e quadricipiti prestanti e se il confronto crea ansia e disagio.

Per chi fa il mio lavoro parlare di peso e di alimentazione è “pane” quotidiano e sempre più lo è anche avere a che fare con magrezze estreme che, seppure opposte al più comune sovrappeso, pongono gli stessi interrogativi e fanno vibrare, anche se in modo diverso, le stesse corde emotive.

Si tratta, insomma, delle due facce di una stessa medaglia. Due lati, ancora per molti versi oscuri, della stessa complessa e sempre più dibattuta faccenda “cibo”.

In entrambi i casi, infatti, ciò che fa riflettere è il rapporto con l’alimentazione, misterioso, atavico, ma sempre più destrutturato e controverso.

E se per un problema si continua, in maniera quasi automatica e a volte irresponsabile, a fornire questa o quella dieta che magicamente faccia sparire i chili di troppo, per l’altro ci si arrovella su percorsi cognitivi-comportamentali, su approcci più o meno efficaci, su modelli più o meno adeguati. Ma il comune denominatore è, sempre e comunque, il cibo.

La stessa medaglia, così, si mostra in modo sempre più eclatante nelle sue due facce apparentemente opposte. In realtà, dovremmo fissare l’attenzione su uno solo di questi aspetti, e cioè la medaglia stessa. Cosa sta capitando al nostro rapporto col cibo?

Nel momento in cui la convivialità, il piacere del gusto a tavola, l’apprezzamento di pietanze semplici sono stati riposti fra le cose obsolete, il loro posto è stato inevitabilmente occupato da “altro”. Il vociare dei bambini e il tintinnio delle posate sui  piatti, così come i racconti della giornata e gli apprezzamenti sulle pietanze, sono stati sostituiti dal rumore pervicace della tv, con i suoi slogan, i suoi gingol, le sue frasi ad effetto e le sue immagini, pregnanti ed aggressive, studiate appositamente per condizionare ed essere ricordate a lungo.

Al nostro tavolo, però, c’è un altro ingombrante convitato: il tempo. Tutto ciò che mettiamo a tavola, dai tovaglioli (di carta, perché non si lavano e si fa prima!) alle pietanze (già precotte, così c’è solo da scaldarle e si fa prima!) ai nostri discorsi (meno se ne fanno e meglio è, così non si litiga e si fa prima!) è finalizzato al risparmio di tempo.

Ma, cosa facciamo con tutto questo tempo che risparmiamo in cucina e a tavola? Lavoriamo, per pagare mutui, comprare abbigliamento adeguato, automobili efficienti, telefonini efficienti, computer efficienti. Lavoriamo anche per acquistare tv con una buona risoluzione e un ottimo audio che ci distolgano dalla convivialità. Ma anche per andare a fare massaggi drenanti e sentirci magri come i personaggi televisivi più in voga, per pagarci le vacanze che sentiamo di meritare e per comprare creme che ci fanno snellire mentre dormiamo.

Ho estremizzato e generalizzato, ovviamente, e qualcuno probabilmente si sentirà infastidito dal mio modo di descrivere certi atteggiamenti entrati ormai nel quotidiano e, per questo, reputati normali dai più. Chiedo venia, ho esagerato per efficacia comunicativa!

Il guaio è che devastando la nostra buona consuetudine all’accudimento e alla tradizione stiamo mettendo a rischio serissimo la salute di intere generazioni.

Tutte le relazioni, familiari e non, passano, prima o poi, attraverso il cibo. Esso è uno strumento socializzante eccezionale, il primo, il più antico ed infallibile. Le prime comunità umane sorsero intorno ad un fuoco sul quale si cuoceva e si condivideva il cibo. Attorno a un campo arato con le mani e a cacciagione ripulita, ripartita e offerta dalle donne. La condivisione e l’accudimento sono colonna portante sulla quale si incardina il rapporto con gli altri e con se stessi, con il proprio sé, con la propria identità e la propria immagine. Persino il rispetto per se stessi passa attraverso il cibo, sottoforma di legittima gratificazione, di prevenzione ed auto-accudimento.

A cosa ci servono, allora, i modelli di estrema magrezza e i messaggi pubblicitari sui cibi fortificati, se abbiamo dentro di noi una saggezza infinita fatta di millenni di consuetudini e di tradizioni? Perché lasciarsi indottrinare da nuove “finte” culture, quando abbiamo la nostra, che ci ha permesso di  sopravvivere ed evolverci, di creare intere comunità, di civilizzarci ed accudire adeguatamente la nostra prole?

In realtà, buttare in aria una medaglia dalle due facce così difficili da gestire e interpretare, non è un gioco proficuo. Lo sarebbe molto di più la sfida di recuperare un rapporto più reale e sereno col cibo, senza inseguire modelli inarrivabili, senza sprecare il tempo a rincorrere il tempo per poi sprecarlo di nuovo.

Rimettiamo le relazioni umane al centro della nostra esistenza e il cibo, quello vero, al suo posto, cioè a tavola, fra cucchiai, piatti e vociare di bimbi.