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Di vendemmie e frangiture

Dal punto di vista alimentare, l’autunno è una stagione ricchissima. Basti pensare alla grande varietà di ortaggi e frutti. Ma l’autunno è atteso soprattutto per la produzione del vino dell’olio. Su questi due preziosi prodotti della nostra agricoltura mediterranea si è detto molto, anche in questa rubrica. Questa volta quindi vorrei parlarvi del loro valore storico, simbolico e culturale. Percorrere la storia del vino e dell’olio significa conoscere la storia dell’umanità e delle varie civiltà che si sono succedute. I Greci esportavano la vite diffondendola nelle terre colonizzate. I Romani, invece, esportavano il vino, relazionandosi in un modo diverso con le popolazioni sottomesse. Con la caduta dell’impero romano e l’avvento delle invasioni barbariche, l’uomo smise di coltivare la vite, a causa delle devastazioni da parte delle popolazioni del nord. Niente viti, dunque, niente vino!
Ma il vino italiano sopravvisse ugualmente e in modo clandestino, grazie al suo significato religioso di cui nei primi secoli del medioevo l’uomo non volle fare a meno. I contadini, infatti, continuarono a mettere a dimora le viti in luoghi appartati e sicuri.
Ma i barbari non portarono solo devastazione: i Romani impararono dai Galli che conservarlo in panciuti recipienti di legno ne migliorava il sapore.
Poi c’è l’olio, che trova anch’esso nel bacino del Mediterraneo la sua culla. La pianta selvatica di ulivo era poco più che un arbusto. Con l’intervento dell’uomo divenne un albero e produsse stabilmente le olive. L’olio divenne sacro sin da subito. I Re di Israele venivano consacrati con l’olio. Di seguito, fu caricato di simboli importanti legati al cristianesimo e ai sacramenti. L’ulivo fu utilizzato dai Greci come simbolo di vittoria alle olimpiadi e i Romani ne diffusero la coltivazione nelle terre dell’impero. Come la vite, anche l’ulivo rischiò l’estinzione durante le invasioni barbariche. Fu salvato dai monaci che continuarono a coltivarlo negli orti dei monasteri. Portare a tavola vino e olio fa dunque parte delle nostre radici e delle nostre tradizioni. Per questo, oltre che per il loro valore nutrizionale e gastronomico, sono prodotti da tutelare, migliorare e diffondere.

Per D.A. novembre 2019

 

Ti racconto la terra…e il cibo

3672_Durso_cover_STAMPA_03Oggi, ogni bambino che viene al mondo può vivere molto a lungo o avere un’aspettativa di vita minore rispetto a quella della precedente generazione. E, di certo, i suoi genitori hanno la grande responsabilità di insegnargli come vivere a lungo e in buona salute. Ogni bambino, insomma, dovrebbe acquisire dai propri adulti di riferimento stili di vita salutari.

Ti racconto la terra
Giusi D’Urso
Edizioni ETS

Storie alla stufa

olioNelle storie dei nonni c’è sempre una fata buona, un lupo cattivo e una bambina sperduta. Ancora mi chiedo come mai in quelle che raccontava mia nonna c’era altro: Tito il cane pestifero, Mammi la gatta ubriaca, Giufà il pastore ingordo e molti altri soggetti che ricordo con affetto, sorridendo fra me e me.

Davanti alla sua stufa a legna non si narravano storie di principesse sfortunate e di principi azzurri in calzamaglia, ma di furti di salsicce e rocamboleschi inseguimenti nei vicoli di paese.

Devo ammetterlo: erano storie parecchio interessanti. Io e i miei fratelli stavamo ad ascoltarle per ore, sgranocchiando la merenda insieme al tempo e alle parole.

Spesso lo spuntino pomeridiano si prolungava fino a tardi; ché mangiare masticando racconti, si sa, è assai sfizioso. D’altra parte, ciò che mangiavamo davanti alla sua stufa faceva venire a nonna la voglia di raccontare.

Un giorno, mentre facevamo merenda con pane casalingo accompagnato a frutta secca, ci raccontò di un frate ghiotto, Fra Felice, che passava il suo tempo in cucina a scucchiaiare ed impastare. Ottimo cuoco e amante dei distillati, era ghiotto di tutto, ma soprattutto di pane e noci. Era la storia, questa, di un frate mangione e di una balia affamata, la gatta Mammi, che aveva da sfamare ben otto cuccioli: quattro suoi e altri due di una gatta morta schiacciata sotto un’auto. Mammi, un giorno, entrò di soppiatto in cucina e si avvicinò senza fare rumore alla sedia dove Fra Felice aveva appoggiato un bel pezzo di lardo da speziare. Sul pavimento, là vicino, una casseruola piena … d’acqua. Più della fame, poté la sete e Mammi si dissetò. Ma non d’acqua: bevve il nocino del frate e si ubriacò. Inseguita da Fra Felice, arrancò barcollando verso la porta e fuggi a gambe levate, un po’ storta, un po’ strana, a zig zag!

Un pomeriggio in cui la merenda sapeva di formaggio, nonna raccontò di Giufà il pastore che non riusciva mai a vendere le sue caciotte perché se le mangiava prima. E quando ci raccontava del cane Tito, invece, era col pane e olio che si faceva lo spuntino. Tito era pestifero. Il suo padrone, invece, parsimonioso. Per non sprecare l’olio che gocciolava dalla bottiglia s’era inventato un collare di spugna da infilare nel collo dell’ampolla e da strizzare una volta che fosse imbevuto a dovere. La spugna era ora rosa, ora azzurra o verde pisello e Tito, pestifero, non riusciva a sopportarla. Se le capitava a tiro la mordeva e la tirava fino a far rotolare giù tutta la bottiglia e…addio olio!

Quando nel mio lavoro parlo con i bambini e chiedo loro cosa mangiano a merenda spesso mi indicano prodotti con nomi che non ricordano nemmeno da lontano le mie merende. Sento parlare di gocciole e pangocciole, fruttoli e fruttini, fetteallatte e sottilette e, confesso, l’unica cosa che mi viene in mente è uno scioglilingua un po’ sciocco che da bambina mi raccontavo per esercitarmi con le parole: frutta che nella fretta frani nel fango, frullando frettolosamente un frappè… Null’altro mi rammentano questi nomi cui sono avvezzi i bambini d’oggi: né una favola, né un sogno, né un ricordo.

Allora, mi chiedo, quali storie potranno raccontare ai loro figli?

Pubblicato su manidistrega.it

Per pulirsi la bocca …

Non sono pisana. Sono approdata in questa bella città nel 1983, dal profondo sud, terra di cannoli, pomodori secchi e pasta di mandorle.

Al primo pranzo da amici, dopo arrosti e patate al forno, arrivò un tagliere con pecorini locali a pasta molle o consistente, freschi, stagionati, piccantini. Nonostante fossi decisamente sazia, mi ci tuffai a capo fitto e, dopo aver soddisfatto il mio palato da sorcio ghiotto, chiesi se si trattasse di una tradizione toscana o se fosse stata un’eccezione. I miei ospiti si guardarono interdetti e il più anziano, fra un boccone di pecorino e un altro di pane sciocco, rispose: “è pe’ pulissi la bocca, no?”. Allora, giuro, mi sembrò quasi una goliardata.

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