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Parole, gesti e storie per un’alimentazione sostenibile

Ieri, a Roma, all’Auditorium Parco della Musica E. Morricone, Francesca Mannocchi ha aperto i lavori del Festival “Libri come” incontrando ragazze e ragazzi delle scuole e riflettendo con loro sul potere dei libri e delle narrazioni: “Proviamo a fare un esercizio di pulizia su tutte le cose del mondo – ha detto la Mannocchi alla giovane platea – a cominciare dalle parole: vedrete che se cominciate a usare le parole avendone cura, cambia il mondo che avete intorno”.
È un esercizio universale, questo delle parole, che possiamo fare in ogni ambito della nostra vita e sperimentarne il risultato a breve e a lungo termine.
Con questa idea nella testa ho cominciato a riflettere sulle parole e le narrazioni lette nelle ultime settimane, relative ai cambiamenti climatici, alla riduzione della biodiversità, agli effetti della resistenza antibiotica. Alcune di queste letture sono ancora in corso e riguardano soprattutto testi sui quali vorrei scrivere prossimamente per Quaerere, la rivista a cui collaboro.

Intanto, ho cominciato a fare l’esercizio delle parole.

Parola n. 1: ritmo

immagine dal web

Il lavoro del Sesto Rapporto di Valutazione (qui il sito con il documento ufficiale), che ha coinvolto oltre mille scienziati provenienti da tutto il mondo, si è protratto per otto anni e si è concluso domenica scorsa in Svizzera con l’approvazione del Rapporto di Sintesi. Tra molti dati allarmanti, il messaggio finale tenta la strada dell’ottimismo: «Un’azione urgente per il clima può garantire un futuro vivibile per tutti – assicura il comunicato stampa finale —. Esistono opzioni multiple, fattibili ed efficaci per ridurre le emissioni di gas serra». Ma bisogna cambiare subito marcia: «Il ritmo e la portata di ciò che è stato fatto finora e i piani attuali, sono insufficienti per affrontare il cambiamento climatico» (corriere.it)

In altre parole, siamo lenti. Anche se, almeno in teoria, sappiamo molte cose sulle possibili strategie per arginare i cambiamenti climatici, l’azione sinergica dei governi non è stata e non è sufficientemente rapida da produrre un rallentamento sostanziale, men che meno l’inversione, del disastro climatico in corso.

Parola n. 2: cibo

Uh, che storia lunga e interessante ha il nostro cibo quotidiano!
L’agricoltura ha rappresentato in tempi molto remoti la salvezza del genere umano. “Negli ultimi 11.000 anni della nostra storia, ci siamo messi (…) a produrre da soli il cibo che ci serviva, domesticando animali e piante e trasformandoli in bestiame e coltivazioni. Oggi la quasi totalità degli uomini del pianeta si nutre di cibo che si è coltivato ed allevato da sé, o che è stato prodotto da qualcun altro per essere venduto” (1).
Più cibo a disposizione ha significato dapprima scampare al rischio di estinzione, e dopo, un aumento vertiginoso della popolazione mondiale. Ma essendo l’agricoltura faccenda alla mercé di Madre Natura, dopo molti millenni di tentativi, fatiche e fallimenti, ci si ingegna, come del resto si è abituati a fare dalla notte dei tempi, e si arriva, in epoca più recente, alla rivoluzione verde (secondo dopoguerra) che con il rinnovamento delle tecniche agricole e l’introduzione dei fitofarmaci e degli antibiotici, affranca la produzione di cibo dai capricci di Madre Natura, così da garantire la sopravvivenza e la crescita della popolazione mondiale.
Oggi conosciamo i danni che questa strategia ha prodotto. Dall’inquinamento delle falde acquifere all’impoverimento dei terreni e alla perdita di biodiversità che “parte dagli insetti e, a cascata, travolge interi ecosistemi, su cui aveva messo chiaramente in guardia la biologa Rachel Carson con il suo saggio Primavera silenziosa” (2).

In altre parole, siamo fregati: aria, acqua e suolo non sono più in grado di rigenerarsi; ogni anno arriviamo sgomenti all’Earth Overshoot Day, giorno in cui il nostro Pianeta ha ufficialmente esaurito la propria bio-capacità, ossia le risorse naturali a disposizione per ciascuno dei suoi abitanti per l’anno in corso. Come se fosse una novità. Come se non ne sapessimo nulla. Come si suol dire, caschiamo dal pero, ma presto non avremo più neanche il pero da cui cascare.
Sul suolo, tra l’altro, i dati sono davvero molto allarmanti: “Un terzo delle terre coltivabili è stato reso sterile o gravemente danneggiato dall’uso massiccio di sostanze chimiche e dalle pratiche dell’agricoltura intensiva, che brucia 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile ogni anno” (2).

“La morte del terreno è la forma di morte più intransigente, perché chiude qualsiasi possibilità di rinascita” (2).

Parola n. 3: azione

immagine di Elena Ricci

C’è un’azione che mettiamo in pratica a un ritmo elevatissimo e che, cambiandone le modalità, può avere un ruolo importante: è l’atto alimentare.
Sulla Terra siamo moltissimi (8,01 miliardi di individui all’inizio del 2023) e, almeno in questa parte fortunata del mondo, in cui il cibo non è un problema, in teoria sappiamo già cosa fare: ridurre drasticamente il consumo di fonti animali, evitare lo spreco e il packaging, scegliere frutta e verdura biologiche, di stagione e del territorio, eccetera eccetera. Si fa presto, però, a dire mangia vegetale: e se manca l’acqua? E se fa troppo caldo? E se il suolo è impoverito? E se i parassiti rovinano le colture?
Un recente saggio edito da EDT suggerisce lo studio dei progenitori selvatici delle piante edibili, capaci di adattamenti incredibili ad habitat e climi estremi. Sono molte le colture selvatiche antiche arrivate fino a noi grazie alla conservazione in Orti Botanici come quello di Palermo, o Parchi regionali come quello del Monte Linas-Oridda-Marganai in Sardegna. Ma anche alcune collezioni private e iniziative di appassionati di archeo-botanica hanno contribuito alla salvaguardia di specie vegetali molto antiche che contengono nel loro patrimonio genetico informazioni preziose sulle capacità di adattamento.
Prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva, “l’agrobiodiversità è stata un fattore di sopravvivenza per le società contadine perché garantiva un approvvigionamento costante per tutto l’arco dell’anno. In questo immenso paniere di frutta e verdura c’erano le varietà precoci, quelle tardive e altre che maturavano nelle più diverse condizioni ambientali. Ogni valle, pianura o litorale aveva un gruppo di ecotipi agricoli, adattati alle caratteristiche del clima locale, che poteva resistere alle avversità ambientali come le gelate primaverili. (…) Ma quello che, allora, era un catalizzatore di stabilità sociale ed equilibrio degli ecosistemi, oggi è stato sostituito dalla filosofia della monocoltura” (3).
Va bene lo studio delle specie antiche e tutto ciò che la ricerca riuscirà a produrre in termini di soluzioni e strategie, ma intanto noi cosa possiamo fare?

Parola n. 4: educazione

Ce ne sarebbero molte altre, di parole, a dire il vero. Rispetto, ad esempio, conoscenza, scelta, riflessione, responsabilità, cambiamento. Ma è sulla parola n. 4 che mi vorrei concentrare, convinta come sono che se è innegabile che l’essere umano è la causa di questo disastro, lo è anche il fatto che deve farsene carico a partire da subito, da quando comincia a mangiare, consumare, scegliere. Quindi, l’educazione ecologica è una priorità assoluta, e a tavola le lezioni iniziano molto presto. Riprendiamo la lista delle piccole azioni quotidiane che moltiplicate per molti milioni di persone possono produrre un cambiamento: ridurre drasticamente il consumo di fonti animali, evitare lo spreco e il packaging, scegliere frutta e verdura biologiche, di stagione e del territorio. Pensate che sia poco? Be’, prendetevi un po’ di tempo per leggere qualcosa in merito (bancoalimentare.it, food4future).

Immagine dell’autrice

Ma come fare a sostituire le cattive abitudini con scelte più virtuose? Se permettete ho qualche consiglio: innanzitutto, smettiamo di pensare al cibo come pozione magica per raggiungere un obiettivo estetico, cerchiamo di sganciare l’attività vitale della nutrizione da quella costruita su modelli inarrivabili che si modificano con il tempo e sono cultura-dipendenti. Pensiamoci come esseri complessi che, come tali, hanno bisogno di nutrienti adeguati alla nostra individualità, al nostro stato di salute, alla nostra età. Dovremmo smettere anche di “vivere per mangiare” e ricondurre la convivialità a un’azione naturale in cui il bello è stare insieme, non riempirsi fino a scoppiare. Un’altra attività che dovremmo ricominciare a praticare è la cura delle relazioni con i produttori: qualcuno lo fa già da anni, ad esempio, attraverso i gruppi di acquisto solidali; ma basta frequentare i mercati contadini, le botteghe di generi alimentari, gli agricoltori che vendono direttamente in azienda. La relazione è quella cosa straordinaria che permette la circolazione di concetti, idee, opinioni e soprattutto fiducia. Ne abbiamo tanto bisogno.
Altro consiglio interessato e, spero, interessante: cerchiamo di pensare al nutrizionista come a un esperto della complessità, non chiediamogli quale cibo fa dimagrire, qual è la migliore pietanza brucia grassi, quale integratore aumenta il metabolismo. Chiediamogli quello che sa fare meglio, per cui ha studiato molti anni e cioè capire come aiutarci a mangiare per stare in salute il più a lungo possibile: la salute dell’uomo viene dalla salute del mondo, e viceversa.
Ai nostri bambini insegniamo che il cibo ha la sua storia, attiriamo la loro attenzione con giochi e racconti che educhino ad alimentarsi in modo sostenibile. Se conosco il cibo, la sua storia, le narrazioni attorno ad esso, quelle che lo precedono e che lo seguono; se conosco ciò che mangio, la provenienza, gli effetti della sua produzione su di me e sul pianeta, se scelgo le parole giuste con cui chiamare il mio cibo, se educo il mio linguaggio e la mia comunicazione al rispetto per l’oggetto che ho nel piatto e per la sua storia, allora l’atto alimentare si trasforma: da un’azione automatica e senza significato, se non quello di riempire lo stomaco, diventa scelta consapevole con effetti sulla salute non solo mia, ma anche del territorio e degli altri.
Ma raccontare storie intorno al cibo è un’attività destinata a tutte le età. Si può raccontare a chiunque, la storia dell’uva di Belpasso nata sulla lava dell’Etna, oppure quella dei filari di Pantelleria o del Bosco di Don Veneziano, in Abruzzo, “maritati” con le querce. Si possono creare laboratori e gruppi di lettura o scrittura creativa, ad esempio, sul corbezzolo “unedo” dalla buccia ruvida e il sapore astringente; sul cedro dalla forma “digitata” per azione di un acaro detto delle meraviglie. Si possono disegnare mappe sulla melanzana che, coltivata per la prima volta in Cina, arrivò in Spagna e poi in Sicilia grazie agli Arabi, oppure sul viaggio del primo albero di mandarino, portato in Europa, anche questo dalla China, da un commerciante inglese che ne sognava la coltivazione in Gran Bretagna ma che dovette desistere per via del clima e vederlo partire per Malta e la Sicilia.

Parola n. 5: parole

Quindi, il cerchio si chiude con il senso della frase di Francesca Mannocchi, con la parola parole, e  perdonatemi il bisticcio. Facciamo l’esercizio di pulizia sulle cose del mondo: se curare le parole cambia il mondo che ci circonda, allora, facciamo attenzione a sceglierle bene. Cominciamo ad avere cura di ciò che ogni giorno mangiamo, diamo al nostro cibo un nome, una storia, un significato che vada oltre la moda e l’omologazione dei sapori e delle abitudini, un motivo imprescindibile per rispettarlo e per farne cosa preziosa qual è.

 

Testi citati
1. Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi
2. Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, Nottetempo
3. Fabio Marzano, I racconti delle piante. Viaggio curioso nel mondo vegetale italiano, EDT

 

 

A tavola per l’ambiente

È appena trascorso il Friday For Future, lo sciopero dei giovani che sfilano nelle città d’Italia e di altri Paesi del mondo per tenere alta l’attenzione sul rapido aumento delle temperature globali. Chiedono che la politica se ne occupi con scelte più attente e azioni più decise. Sulla giovane attivista svedese che ha il merito di aver promosso il movimento, Greta Thunberg, si è detto troppo e a sproposito, spostando l’attenzione dal vero focus della manifestazione e cioè la questione climatica. Al netto di tutte le controversie e le opinioni che ognuno si è fatto, attuare comportamenti a basso impatto ambientale è indubbiamente affare di tutti. Ognuno di noi può fare tanto e da subito, cominciando ad esempio dal proprio stile alimentare. La riduzione del consumo di carne e sicuramente una delle raccomandazioni principali, a causa dell’alto impatto ambientale degli allevamenti intensivi: chi la ama non deve necessariamente escluderla dalla propria dieta, ma sceglierla con attenzione e mangiarla con una frequenza minore (due volte a settimana per un adulto sano è più che sufficiente). Sceglietela da allevamenti non intensivi, che non fanno utilizzo massivo di antibiotici e altri farmaci, che alimentano gli animali in modo congruo e rispettoso della loro salute e dell’ambiente. Quando andiamo a fare la spesa, evitiamo incarti e contenitori di plastica, prediligendo alimenti sfusi. I rifiuti vanno riciclati o inceneriti, si tratta di processi che prevedono alti costi ambientali. Non facciamo scorte alimentari, eviteremo gli sprechi, ridurremo i rifiuti. Quando è possibile cerchiamo di raggiungere i punti vendita senza l’uso dell’automobile, camminare fa bene a tutti. A casa, riduciamo più possibile il consumo d’acqua: riutilizziamo le acque di cottura delle verdure per insaporire altre pietanze, beviamo acqua di fonte o contenuta in bottiglie di vetro a rendere. Cominciamo da qui. Per approfondire non mancano certo i siti su cui informarsi (www.wwf.it, www.saluet.gov.it, www.fao.org). La cosa più importante è attivarsi e farlo da subito. Credo che tutti noi lo dobbiamo ai nostri ragazzi, a noi stessi e al pianeta che ci ospita.

 

Su Dimensione Agricoltura

A Cartosio, la festa della frutta!

Con Emanuela Rosa-Clot ElenaRicci017 ElenaRicci018 ElenaRicci026 RicciElena_0118 RicciElena_0117 RicciElena_0120 RicciElena_0122 RicciElena_0126 RicciElena_0128 RicciElena_0131La presentazione di Ti racconto la terra, a Cartosio (Alessandria), in occasione della festa “Estate Fruttuosa” (8 agosto 2015) è stata un’esperienza bellissima. Un’occasione unica per conoscere un territorio ricco di storia, di saperi popolari e di bella gente.

Un grazie a:
l’mministrazione comunale (in particolare alla vicesindaco M.Teresa Zunino), ad Emanuela Rosa-Clot (direttrice di Gardenia), a Mimma Pallavicini (giornalista esperta in giardini, piante e giardinaggio), a Elena Ricci, fotografa  per avermi inviato queste magnifiche immagini dell’evento.

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Ti racconto la terra…e il cibo

3672_Durso_cover_STAMPA_03Oggi, ogni bambino che viene al mondo può vivere molto a lungo o avere un’aspettativa di vita minore rispetto a quella della precedente generazione. E, di certo, i suoi genitori hanno la grande responsabilità di insegnargli come vivere a lungo e in buona salute. Ogni bambino, insomma, dovrebbe acquisire dai propri adulti di riferimento stili di vita salutari.

Ti racconto la terra
Giusi D’Urso
Edizioni ETS

Ti racconto la terra- recensioni e interviste

 

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A questo link puoi ascoltare la registrazione dell’intervista rilasciata a La dolce linea, di Tiziana Stallone, per RaiRadioWeb, il 15 novembre 2013.

A questo, invece, puoi leggere la prima recensione sul blog di Laura Montanari (Repubblica Firenze).

 

 

 

Le foto della presentazione al Caffè di Repubblica del
Pisa Book Festival 2013, con Laura Montanari e Fabio Galati.

Foto: Repubblica Caffe' - Pisa Book Festival- Giusi D'Urso presenta Presenta "Ti racconto la terra"

Agricoltura depredata e cibo finto: paradossi, conseguenze ed altri orrori

L’industrializzazione del cibo, iniziata dagli anni ’50-‘60 del secolo scorso, ha creato trasformazioni profonde nelle nostre abitudini alimentari e ha posto le basi per lo sviluppo di una serie di patologie metaboliche cui la nostra generazione e quelle future sono e saranno inevitabilmente predisposte. La prima, gravissima conseguenza è sotto gli occhi di tutti: in Italia abbiamo i bambini più grassi d’Europa e si stima  che le nuove generazioni avranno un’aspettativa di vita inferiore a quella delle generazioni precedenti.

Più o meno parallelamente della corsa al cibo industriale si è verificata la cosiddetta rivoluzione verde che, con l’alibi inoppugnabile di voler risolvere i problemi della fame del mondo, ha aperto la strada all’agri-business che oggi spadroneggia a tutto campo, arricchendo in modo smisurato le multinazionali che detengono il monopolio delle sementi ed impoverendo, anzi depredando, intere popolazione contadine del Sud del mondo e non solo. Ma non basta: all’agri-businnes si è aggiunta la rivoluzione genetica, che, dagli anni ’70 in poi, con un altro alibi inoppugnabile, quale quello di aumentare le rese e dare più reddito ai coltivatori, sì è accaparrata un’enorme fetta di mercato, creando e promuovendo a tappeto chimere commestibili, spacciate per il cibo perfetto per l’essere umano, del cui utilizzo ancora oggi non conosciamo le conseguenze.

Partendo, quindi, dall’ossimoro che più gravemente ha danneggiato la nostra cultura e cioè quello dell’agricoltura industriale, siamo arrivati all’effetto che più pesantemente si è abbattuto sull’uomo, rendendo fragile le sue civiltà e annullando certezze antiche e preziose: obesità e fame nel mondo, due lati della stessa medaglia.

Oggi, dunque, fra le sementi Monsanto, le patate BASF e il junk food di MacDonald’s nasce, fortissima e urgente, l’esigenza di tornare alla terra e di rivalutarne il ruolo fondamentale nel quadro economico di un Paese. Siamo dovuti arrivare, cioè, alle aberrazioni per comprendere (di nuovo) il legame profondo fra cibo, terra e cultura di un popolo!

Ma, dopo decenni di propaganda a favore degli ossimori, dei paradossi e di leggi a favore del consumismo sfrenato, tornare alla cultura del parco, semplice, locale e sufficiente è davvero difficile. Eppure, la partita più importante, da oggi in poi, che ci piaccia o no, si giocherà sull’agricoltura e sul cibo locali che, lungi dall’essere argomentazioni di pochi eletti che fanno e disfano a nostra insaputa, devono segnare, invece, la coscienza di ognuno e far posto a dubbi, domande e voglia di verità. Perché ognuno si chieda quale sarà il proprio ruolo nel lungo e periglioso viaggio di ritorno a una concezione più “umana” del produrre e consumare cibo.

È, come sempre, la conoscenza a dover tornare alla ribalta. Quella attitudine, cioè, a non fermarsi a ciò che appare e ad andare in fondo ad ogni cosa. Quella voglia di verità che ci rende meno sprovveduti e più attivi davanti alle scelte.

Il diritto a conoscere, convinciamocene, non ha bisogno di alcun alibi inoppugnabile, perché è inoppugnabile di per sé; a condizione, però, che ogni individuo lo percepisca come tale. È il classico cane che si morde la coda: meno sappiamo e meno vogliamo sapere. Più cose comprendiamo, più saremo in grado di operare scelte critiche e consapevoli… e, ovviamente, più vorremo conoscere e capire.


La questione, però, come tutti sanno, non è così banale, poiché l’attitudine a voler conoscere e comprendere reca con sé non pochi effetti collaterali, coi quali pochi individui del terzo millennio sono disposti a fare i conti. E quindi, meglio acquistare cibo industriale; meglio smettere di preparare il cibo per provvedere all’accudimento dei nostri figli; meglio acquistare tutto ciò di cui il marketing ci fa venire voglia, senza ascoltare i nostri reali bisogni. Tutto, pur di annegare nell’illusione di risparmiare tempo, e, qualche volta, anche denaro.

Un altro cane che si morde la coda, però, si nasconde dietro le scelte-non scelte della numerosissima popolazione dei non consapevoli: il ricorso continuo agli alimenti industriali, spesso ricchi di additivi, grassi e zuccheri e poveri di vero nutrimento e il rifiuto psicologico di una spesa più vicina alle produzioni locali, solitamente più fresche, sane e stagionali, pone a rischio il nostro organismo rispetto a numerose patologie metaboliche e non, e penalizza, nel contempo, l’agricoltura locale, già di per sé depredata ed offesa dalla presenza ingombrante di quella industriale.

Le conseguente sono (saranno) molto gravi.

In campo alimentare assistiamo allo svuotamento del concetto di cibo: l’atto del mangiare è divenuto un’attività completamente scollegata dalla nostra cultura, dalle nostre origini e, persino, dal nostro modo di “funzionare”. Si mangia (o non si mangia) un cibo perché qualcuno ci ha detto, in modo molto convincente che fa bene (o fa male); si sceglie di non cucinare perché qualcuno ci ha detto che il tempo è necessario per lavorare e produrre più reddito. Si comprano le primizie o i cibi tropicali perché qualcuno ci ha fatto illudere che mangiare ciò che ci pare e piace, ovunque e in tutte le stagioni dell’anno significa che la Natura è al nostro servizio. E così via, senza porci domande, se non quella di quanto risparmieremo con la promozione di turno.

Ingurgitiamo cibo senza chiederci da dove viene, com’è stato prodotto, com’è arrivato fino a noi e se ne abbiamo davvero bisogno. E lo portiamo nelle nostre case, lo condividiamo con parenti e amici, certi (illusi) di fare la cosa giusta. Ma qual è la cosa giusta?

Qual è la priorità dell’essere umano?

Un tempo lontano era quella di sopravvivere e in alcune parti del mondo ancora lo è. Nel mondo più “ricco”, oggi, la priorità, invece, dovrebbe essere il “sapere”. Sapere che spesso i cibi destinati all’infanzia sono prodotti senza attenzione a tossine ed additivi; che la maggior parte dei prodotti confezionati acquistati presso la grande distribuzione ci pone immediatamente di fronte all’esigenza di eliminare un rifiuto, uno scarto; che frutta e verdura provenienti da posti lontani non sono maturati sulla pianta e non nutrono come crediamo; che gli stessi prodotti hanno provocato inquinamento da CO2 viaggiando per lunghe distanze; che i nostri organi e i nostri tessuti non hanno bisogno di un apporto proteico animale come quello della nostra alimentazione di oggi; che produrre tanta carne per tutti questi “carnivori inconsapevoli” significa deforestare intere zone del Sud del mondo per coltivare intensivamente mais e soia, destinati agli allevamenti; che la fame di alcuni popoli non è dovuta alla scarsità di cibo, ma alla sua cattiva distribuzione; che la pasta dell’industria alimentare è fatta con grano di origine lontana, trasportato nei nostri porti dopo essere stato trattato pesantemente con conservanti e antifungini e lasciato per settimane nelle stive delle navi prima di essere distribuito alle industrie; che lo sciroppo di glucosio presente in tutte le merendine per bambini limita il funzionamento di importanti ormoni che regolano il nostro metabolismo.  E molto, molto altro…

Cosa hanno a che fare l’Africa, l’Asia, l’America del Sud e le loro foreste con la mia vita, qui e adesso? Sono Paesi ricchi (ancora per poco) di risorse naturali, le terre in cui l’anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche viene assorbita nel processo di fotosintesi restituendo all’atmosfera l’ossigeno necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi, anche a me, che vivo qui e adesso.

E quanto pesa la mia scelta alimentare sull’economia del mio Paese? Moltissimo. Sia in termini di impronta ecologica, che di spesa sanitaria, che di supporto all’agricoltura locale.

Qualche dato: 5 milioni di obesi in Italia, costano al Sistema Nazionale Sanitario circa 8,3 miliardi l’anno, c.a. il 6% della spesa sanitaria (dati Istat); nel decennio 2000-2010 i redditi degli agricoltori italiani sono crollati di oltre il 30%.  (dati Confederazione Italiana Agricoltori); abbiamo bambini in età scolare che chiedono su quale albero nasce il Fruttolo e dove vengono allevate le mucche viola (dati miei!).

Tutto questo, tradotto in disagi, malattie, povertà, smantellamento culturale, pesa e peserà sempre di più sulle nostre vite e, quel ch’è peggio, sulle vite dei nostri figli.

Pensiamoci, allora, quando scegliamo il cibo, poiché la nostra scelta fa, davvero, la differenza.