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Il prossimi gruppi di educazione alimentare online

Da quando la pandemia ci ha costretti a modificare le nostre abitudini professionali e comunicative, ho adeguato i gruppi di educazione alimentare che organizzavo in presenza nel mio studio. Da un anno circa, quindi, i gruppi si svolgono con modalità smart, approfittando delle numerose piattaforme di facile utilizzo.
Il primo gruppo che sta per essere attivato è quello sull’adolescenza.
A seguire, ci saranno quello dedicato al microbiota intestinale (in programma per la seconda metà di aprile) e l’ultimo di questo primo semestre 2022 dedicato all’alimentazione in menopausa.

 

 

 

 

I gruppi sono aperti a tutti e hanno le seguenti caratteristiche: non hanno valore professionalizzante, si pongono come obiettivo quello di fornire strumenti di comprensione e gestione dei problemi legati al tema affrontato. Non vengono rilasciati piani alimentari, attestati, materiali didattici. Gli incontri non vengono registrati. Ogni gruppo ha il costo di 75 € e la durata di due incontri di due ore l’uno.Per maggiori informazioni è possibile scrivere a giusi.durso@libero.it

 

Di seguito una mia breve biografia.

Giuseppina D’Urso è biologa nutrizionista, specialista in patologia clinica, con perfezionamento in patologia molecolare. Insegna nutrizione clinica all’università di Pisa e principi di dietologia all’università di Bari. È autrice di diversi saggi divulgativi.

 

Supervisione di percorsi nutrizionali – Occasione di confronto e formazione

Dedicato ai colleghi

Quando molti anni fa iniziai a occuparmi di nutrizione clinica, avvertii forte il bisogno di confrontarmi con i colleghi che da più tempo esercitavano la professione. Più di tutto mi avrebbe confortato e motivato sottoporre i miei primi casi all’attenzione di persone più esperte per capire come procedere o avere conferme sullo stato dell’arte di quelle mie prime valutazioni nutrizionali, sui miei primi piani alimentari, sui limiti e gli ostacoli con i quali mi stavo misurando. Allora feci molta fatica. Furono pochissime, da contarsi sulle dita di una mano, le persone disponibili a condividere con me la propria esperienza.
Per questo motivo e per la passione che non mi ha mai abbandonato ho deciso, dopo molti anni di docenza, pubblicazioni di testi divulgativi, collaborazioni e attività ambulatoriale, di attivare online e/o in presenza delle sessioni di supervisione dei percorsi nutrizionali.

Che cosa si intende per supervisione di percorsi nutrizionali?
Un’occasione per sottoporre a chi ha più esperienza i casi più complessi. Un modo per acquisire una visione più ampia e confrontarsi sulle prospettive che i vari percorsi nutrizionali possono offrire, individuando nel contempo modalità di approfondimento e crescita personale.

A chi si rivolge la supervisione di percorsi nutrizionali?
A colleghe e colleghi che ne sentono il bisogno, siano essi alle prime armi o si avvicinino da poco a una delle branche della nutrizione di cui fino ad ora non si erano occupati.

Con quali modalità vengono gestite le supervisioni di percorsi nutrizionali?
Chi richiede una supervisione ha la possibilità di proporre uno o più casi su cui sta lavorando e sui quali desidera essere seguito da un supervisore. Presentare il caso significa descriverne la presa in carico, la raccolta dati ed eventuali idee di percorso. Il supervisore studia il caso e attiva una o più sessioni in cui ne discute con il collega richiedente, sviscerando ogni aspetto del trattamento nutrizionale, comprese le eventualità e le modalità di invio ad altri professionisti.
La supervisione può essere singola o di gruppo, a seconda delle necessità di chi la richiede e della complessità dei casi proposti. Può essere fatta con modalità online o in presenza (nel rispetto delle esigenze del richiedente e delle attuali misure anti Covid-19).

Come si fa a ricevere informazioni dettagliate sulle supervisioni e ad accedervi?
Basta scrivere all’indirizzo giusi.durso@libero.it e richiedere informazioni sui tempi e sui costi. Per richiedere una supervisione si può scrivere allo stesso indirizzo, specificando la tipologia del caso (esempio: giovane adulto con obesità, oppure, bambino selettivo, o ancora adolescente con disturbo alimentare, ecc.). Sarà mia cura fissare un appuntamento telefonico per pianificare insieme i tempi e i modi della supervisione.

Quali sono le tipologie di percorsi per cui potete richiedere una supervisione?
Bambini: divezzamento, disturbi alimentari precoci, selettività alimentare, gestione dei pasti fuori casa, obesità e altre patologie in cui il supporto nutrizionale sia necessario o utile;
Adolescenti: disturbi alimentari, gestione dei pasti in famiglia, gestione dei pasti fuori casa, obesità e altre patologie in cui il supporto nutrizionale sia necessario o utile;
Donne in varie fasi della vita, comprese gravidanza e allattamento, disturbi alimentari, menopausa e patologie varie;
Persone affette da sindrome metabolica, disbiosi intestinale, diabete mellito di tipo uno e due, reflusso gastroesofageo, patologie autoimmuni, obesità.
Le patologie devono essere diagnosticate dal medico.
Ristorazione collettiva: sanitaria (ospedali, cliniche private, RSA), aziendale, scolastica.

Per il momento, è tutto. Spero che questo articolo vi sia stato utile. Di seguito, una mia breve biografia.
Al prossimo aggiornamento!


 

Giuseppina D’Urso è biologa nutrizionista, specialista in patologia clinica, con perfezionamento in patologia molecolare, un master in Alimentazione Umana e uno in Disturbi alimentari nell’infanzia e nell’adolescenza (Università di Firenze). Collabora con il Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, dove tiene seminari e corsi per gli studenti di Scienze della Nutrizione Umana. Insegna Principi di dietologia e Ristorazione collettiva nel corso di perfezionamento di Nutrizione Umana dell’Università di Bari. E’ autrice di saggi divulgativi a tema nutrizione e coautrice del manuale Alimentazione Nutrizione e salute (De Bellis, Poli – EdiSes, 2019). Dal 1998 si occupa di ricerca biomedica presso la Scuola Medica dell’Università di Pisa, dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica. Ha collaborato al dossier scientifico delle ultime Linee Guida per una sana alimentazione (CREA, 2018). Collabora con riviste online e cartacee.
Riceve su appuntamento in Largo Bandettini, 4 Ghezzano, S. Giuliano Terme, Pisa.

e-mail: giusi.durso@libero.it
Telefono: 347 0912780

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Rifiuto del cibo e patologie metaboliche: un caso in corso.

molecola-del-fruttosio-40168389Recentemente è arrivata alla mia osservazione Rebecca (nome di fantasia): una bambina con intolleranza al fruttosio o fruttosemia. Si tratta di una patologia genetica, autosomica recessiva, caratterizzata dall’assenza dell’enzima fruttosio-1- fosfato aldolasi deputato alla metabolizzazione del fruttosio. Questo zucchero quindi tende ad accumularsi nel sangue e a provocare danni epatici, renali e metabolici. La malattia può manifestarsi già nella primissima infanzia con vomito, rifiuto del cibo e ipoglicemia. In assenza di una diagnosi precoce e della dieta deprivata di fruttosio, la situazione può essere così grave da arrecare danno epatico e renale e rendere necessario il ricovero in ospedale.
Rebecca ha poco più di due anni e di ricoveri ne ha già subiti diversi. Finalmente adesso la sua patologia è stata individuata e diagnosticata con precisione, pertanto la bambina sta seguendo una dieta completamente priva di fruttosio, saccarosio e sorbitolo. La difficoltà di strutturare e seguire un piano alimentare siffatto è rappresentata soprattutto dalla presenza di fruttosio nascosto in molti alimenti industriali. Pertanto è consigliabile utilizzare cibi che naturalmente non lo contengono. Inoltre, è importante lavorare sulla salute del suo intestino e sulla regolarità dei suoi assorbimenti, attraverso l’utilizzo di probiotici esenti da fruttosio (la cui ricerca è risultata davvero ardua!). Un altro aspetto fondamentale è l’integrazione vitaminica, attraverso prodotti di integrazione adeguati.
La gestione di una dieta deprivata di fruttosio in una bambina così piccola è molto complessa e faticosa, anche perché, a causa dei continui sintomi e dei conseguenti ricoveri, Rebecca ha sviluppato una reazione repulsiva verso il cibo e il momento del pasto in generale. Tale repulsione, inoltre, si sovrappone alla neofobia fisiologica che ogni bambino sperimenta fra il primo e terzo anno di vita. Le reazioni più comuni  di Rebecca attualmente sono il pianto, la stizza, la fuga e l’allontanamento dalla tavola apparecchiata, la tendenza a piluccare e l’estrema selettività. La crescita della bambina, al momento, è regolare e questo ci concede il tempo di instaurare con calma un buon rapporto empatico e strutturare un percorso adeguato.
Rebecca attualmente rifiuta anche alimenti proteici naturalmente privi di fruttosio quali la carne, l’uovo e il formaggio e il pesce che, in questa fase della crescita e in presenza di un regime alimentare così ristretto, assumono un’importanza fondamentale. Il lavoro con Rebecca è appena iniziato e fondamentalmente riguarda la sensorialità e le reazioni di diffidenza: stiamo imparando a conoscere il cibo e ad accettare la convivialità attraverso colori, reazioni tattili e l’uso di video appropriati. Il secondo step riguarderà la sperimentazione dei cibi da introdurre fra i suoi consumi in forma adeguata: in questo passaggio sarà fondamentale la collaborazione dei genitori nella preparazione dei pasti e nella condivisione familiare, serena e paziente.

 

 

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Il supporto nutrizionale nelle malattie autoimmini

Un caso di obesità e Artrite Psoriasica.

Fig.1 IMC

Fig.2 Peso

Come già accennato in un articolo precedente, l’alimentazione svolge un ruolo fondamentale nel trattamento delle patologie autoimmuni. Queste patologie sono caratterizzate dall’aggressione dell’organismo da parte del proprio sistema immunitario. Esso, quindi, invece di tollerare i tessuti e gli organi del corpo, li attacca come se fossero estranei e tende a limitarne la funzionalità, fino a renderli completamente inattivi. Si tratta di patologie croniche, su base infiammatoria, più e meno gravi, spesso con andamento altalenante e recidivante. Ne ricordiamo alcune: artrite reumatoide, morbo di Chron, colite ulcerosa, sclerosi multipla, diabete tipo 1, sclerodermia.
L’Artrite Psoriasica (AP) è una malattia reumatica infiammatoria cronica associata a psoriasi. In oltre il 75% dei casi l’insorgenza della psoriasi precede quella dell’artrite. In un paziente con psoriasi il rischio di sviluppare AP è maggiore se ha familiarità per questa malattia, se la psoriasi è estesa e localizzata anche alle unghie o se è presente un particolare antigene (B27 o B7) nel suo sistema HLA (Human Leukocyte Antigens, cioè sistema dell’antigene leucocitario umano, ovvero sistema maggiore di istocompatibilità).
Qual è il ruolo dell’alimentazione nel trattamento di questa malattia? La dieta mediterranea con la sua ricchezza in cereali integrali, ortaggi e frutta stagionali, legumi e la sua povertà in carni fresche e conservate, e l’attività fisica, moderata ma quotidiana, hanno sicuramente un’influenza molto positiva sullo stato infiammatorio dei pazienti affetti da AP. La cospicua presenza di sostanze nutraceutiche ad alto potere antiossidante e antinfiammatorio è in grado di ridurre il dolore, la rigidità articolare e l’attività della malattia. E’ stato visto che la dieta vegetariana, priva o basso tenore di glutine, ha anch’essa un effetto positivo su questa categoria di pazienti. E che un’integrazione accurata e personalizzata ne amplifica ancora di più i benefici. Un fattore molto importante è il controllo del peso corporeo: la perdita dei chili in eccesso garantisce un netto miglioramento della sintomatologia dolorosa e permette una maggiore mobilità ed elasticità. Molto importante evitare il “fai da te” ed affidarsi a chi è in grado di personalizzare il piano alimentare e di fornire strumenti corretti per una autogestione a lungo termine. E’ bene ricordare, infatti, che ogni individuo, che sia ammalato o in perfetta salute, è un organismo a sé, con caratteristiche e peculiarità del tutto originali e personali che la complessità che lo contraddistingue merita attenzione, competenza e rispetto (vedi Si fa presto a dire dieta!).
Il caso.
Con piacere condivido con chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qui i risultati ottenuti in una mia paziente di  42  anni, ammalata di AP (giunta alla mia attenzione dopo diagnosi dello specialista) che, oltre a intraprendere una regolare e moderata attività fisica (camminate all’aperto per circa 40-60 minuti al giorno), ha adottato una dieta pesco-vegetariana priva di glutine e caseina. Inoltre, è stata integrata con vitamina D (come da prescrizione medica) e con prebiotici e probiotici adeguati al mantenimento della salute del microbiota intestinale. Da un Indice di Massa Corporea (IMC) iniziale di 35,3 (obesità di classe 2) a giugno di quest’anno, la signora è giunta ad ottobre al valore di 30,1 (Fig.1), perdendo, fino a questo momento, 13,7 Kg (Fig.2). La perdita continua ma molto graduale di peso le ha permesso di migliorare e allungare le sue camminate quotidiane con un beneficio sia per il corpo che per l’umore. I sintomi, sia articolari che dermatologici, si sono attenuati molto, migliorando la qualità del sonno e della vita in generale. La strada da fare è ancora parecchia, ma il netto miglioramento della sintomatologia infonde coraggio e fiducia nel percorso che, comprendendo adeguamenti continui del piano alimentare a seconda delle esigenze e delle preferenze della signora, viene ben tollerato ed accolto.

(Immagini dell’autrice)

Per approfondire
1) http://www.reumatologia.it/linee-guida-sir.asp
2)http://www.regione.toscana.it/documents/10180/320308/Reumatologia.+Linee+guida/4903da2e-345a-4479-ab93-5c2a0e31385e?
3) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27994480

 

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Il cibo fra il corpo e la mente

Mentre la quotidianità ci travolge con i suoi ritmi frenetici e le sue consuetudini, dimentichiamo spesso di cosa siamo fatti e come rispondiamo agli stimoli esterni. È bene ogni tanto ricordare che siamo organismi complessi, fatti di carne, ossa, pensieri, emozioni. Un ampio e articolato sistema di strutture anatomiche e psichiche connesse fra loro dalla chimica del corpo. Quest’ultima rappresenta uno dei substrati su cui agisce il cibo, con la sua composizione variegata di molecole. Il suo ruolo non è solo quello di nutrire, ma anche di interagire con le interconnessioni che caratterizzano il corpo e l’essere umano tutto. Spesso ci sfugge che anche i pensieri e le emozioni hanno un movens chimico: molecole di neurotrasmettitori e neurormoni, messaggeri intra ed extracellulari, che stimolano o inibiscono altre molecole, interagiscono con i propri recettori. Ogni nostra reazione, ogni sensazione, ogni sentimento hanno come base la chimica del sistema nervoso. Essa, integrandosi ad altre chimiche (a quella del codice genetico, del sistema immunitario) e con ciò che ci sollecita dall’esterno, produce reazioni, più o meno evidenti, sia a livello organico che a livello psichico. Insomma, la natura ha fatto davvero un gran ben lavoro, senza risparmiarsi in quanto a complessità.
Proprio questa caratteristica, così peculiare e così meravigliosa, a volte ci espone a dei rischi. In alcuni momenti della nostra vita o in alcune patologie, in particolare i disturbi alimentari, come ad esempio nel Disturbo di Alimentazione Incontrollata (DAI) ma anche nell’Anoressia Nervosa (AN) e nella (BN), così come nell’obesità e nell’ortoressia*, il cibo, con il suo ampio bagaglio di significati e simbologie, rappresentando atavicamente un ponte fra il corpo e la mente, diventa l’unico linguaggio con cui parliamo a noi stessi e al mondo che ci circonda. Questo accade nell’adulto, come nel bambino e nell’adolescenze e le sue conseguenze sulla salute possono essere anche molto gravi.
Quando le incongruenze dell’anima e dei pensieri diventano insopportabili può accadere che il cibo diventi la consolazione a portata di mano, smorzando così emozioni intollerabili, dolori profondi, autosvalutazione, stati di profonda frustrazione e delusione. Il corpo con le sue forme, interfaccia sociale fra noi e gli altri, depositario di memorie genetiche e metaboliche, spesso oggetto di giudizi terribilmente condizionanti viene coinvolto e sconvolto da pensieri ossessivi che producono disfunzioni nel comportamento alimentare. La formulazione di tali pensieri e la reazione del proprio corpo alla frustrazione e alla sofferenza che essi generano trovano nel cibo la chiave di volta, la strada per comunicare con se stessi e il mondo, il modus più congeniale per riempirsi, svuotarsi, amarsi, consolarsi. Per sopravvivere alla solitudine, al dolore, al giudizio degli altri.
Come già accennato, i meccanismi fisiologici che sottendono al consumo fisiologico del cibo, quale nutrimento del corpo e gradimento per la mente possono alterarsi a qualsiasi età: il DAI, in particolare, è fra i disturbi alimentari più diffusi, colpisce appunto tutte le fasce d’età e i livelli culturali, con un coinvolgimento del sesso maschile maggiore rispetto a AN e BN. Inoltre, è causa di molte complicanze metaboliche, cardiovascolari e psichiatriche.
Nell’età evolutiva, il sovrappeso e l’obesità sono espressione di un corpo in grande difficoltà, che racconta un probabile disagio, un’incongruenza che ha provocato una frattura, un cambiamento adattativo, alterando la rete chimica, delicata e complessa, che collega il metabolismo al peso corporeo e al funzionamento psichico. Lo stretto legame (fisiologico) fra il piacere di mangiare e la relazione del bambino con i suoi adulti di riferimento (in particolare la nutrice) si trasforma in un’arma contro se stessi, producendo e mantenendo il disturbo alimentare.

Ma un problema che nasce da un sistema complesso non può ammettere soluzioni semplicistiche. Per questo, i percorsi terapeutici che possono aiutare le persone affette dai suddetti disturbi devono contemplare più figure professionali che lavorano in rete, confrontandosi di continuo.
Dal punto di vista nutrizionale, diventa fondamentale instaurare un rapporto empatico, di accoglienza e fiducia, come base su cui costruire esperienze che supportino il paziente nel cammino, spesso lungo e faticoso, verso la riconversione del cibo da ciò che è diventato a ciò che deve tornare ad essere: nutrimento e piacere. Sia per gli adulti che per i ragazzi, sono necessarie sedute che mettano in contatto, nel modo e nei tempi adeguati, i sensi e le sensazioni con il consumo dei cibi che rappresentano il nemico o il conforto. Il lavoro sulla composizione corporea e sul peso è contestuale ma non sempre prioritario, perlomeno fino a quando non saranno raggiunti gli obbiettivi comportamentali di base. Per i più piccoli, è stato visto che i percorsi più efficaci sono quelli che coinvolgono l’intera famiglia pur lasciando spazio e autonomia al bambino o al ragazzo, in modo da ricomporre il complesso mosaico di emozioni e sensazioni corporee legate al consumo, alla scelta e al gradimento degli alimenti e sostenere così una crescita corporea e psichica fisiologica.
Non si tratta quasi mai di percorsi brevi e privi di inciampi, poiché il cibo e il suo consumo sereno e fisiologico rappresentano una parte molto importante e fondante della nostra vita, della nostra salute e del nostro modo di essere. Cibo, mente e corpo sono e saranno sempre le tre anime chimiche che ci compongono e ci rendono ciò che siamo. L’attenzione dovuta a questa triade così importante deve essere, da parte di chi se ne prende cura, alta e costante. In tutti i casi, diventa fondamentale la costruzione di un terreno ampio e sereno dove poter seminare nuovi obiettivi e accudire nuovi stili emotivi e comportamentali, trasformando, come nell’arte del Kintsugi**, ogni ferita in una nuova possibilità di migliorare il rapporto con il proprio corpo, con il proprio cibo e con il proprio mondo.

 

 

 

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Immagine tratta dalla rete.

 

* ortoressia: da Orthos (giusto) e Orexis (appetito),sindrome caratterizzata dall’ossessione del cibo sano, che spinge ad eliminare gruppi di cibi essenziali per paura di essere contaminati.

**Kintsugi: tecnoca artistica giapponese che valorizza le incrinature e le crepe degli oggetti rotti rempiendole con oro

Per approfondire:

– Prigionieri del cibo. L. Dalla Ragione e S. Pampanelli. Pensiero Scientifico Editore
– Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari E. Riva. Mimesis

 

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L’epigenetica e l’obesità infantile. Capire per agire.

Immagine tratta dalla rete

EPI.jpg

IOM (Institute of Medicine). 2015

Negli ultimi anni lo studio dell’epigenetica, cioè dei cambiamenti dell’espressione dei geni in seguito a stimoli ambientali, ha chiarito molti aspetti dei meccanismi legati all’espressione genica. Oggi sappiamo che in natura tutti gli organismi viventi ricevono stimoli dall’ambiente e che questi possono cambiare il modo in cui i geni si “accendono” o si “spengono”.
Nonostante il cammino della scienza sia ancora lungo, lo studio dei meccanismi epigenetici sta già rispondendo a molte domande che i ricercatori si ponevano da tempo. Le più importanti riguardano forse lo sviluppo di malattie metaboliche: come può l’ambiente influenzare l’insorgenza di queste patologie? Quanto è importante questa influenza esterna sull’espressione dei geni che condizionano il nostro comportamento alimentare e il nostro metabolismo?
Da vari studi, recenti e non, è noto che il rischio di obesità è influenzato dalla relazione dinamica fra l’ambiente, la genetica e le prime fasi di sviluppo del bambino. In particolare, a destare preoccupazione è l’obesità infantile con le sue conseguenze a breve e lungo termine, viste le dimensioni e la diffusione del fenomeno e il relativo aumento della spesa sanitaria.
L’analisi delle relazioni fra epigenetica e sviluppo di obesità è ancora in corso, ma esaminare queste prime idee iniziali, su cosa e come si può cambiare, potrebbe condurre a nuove soluzioni per la prevenzione dell’obesità infantile.
Uno degli studi epidemiologici più importanti al riguardo è quello relativo alla carestia olandese del 1944, seguita dall’aumento del rischio di obesità, ipertensione, diabete tipo II e addirittura disturbi psicopatologici come schizofrenia e depressione, nei discendenti. I meccanismi con cui questo aumentato rischio era trasmesso erano meccanismi epigenetici: nei feti esposti alla restrizione calorica materna, rispetto ai nati nei periodi precedenti o seguenti la carestia, c’era quindi una maggiore incidenza delle suddette patologie. Questo fenomeno è stato interpretato come un meccanismo ad alto significato evolutivo: l’organismo in formazione registra le caratteristiche dell’ambiente in cui crescerà e si adatta, a costo di ammalarsi in seguito con maggiore probabilità. Dunque, l’epigenetica ha un’influenza importante sulle origini dell’obesità, dallo sviluppo fetale ai primissimi anni di vita.
Alcuni gruppi di ricerca si sono concentrati in modo specifico sulla nutrizione materna e paterna. Studi su topi geneticamente identici esposti in utero a diete materne differenti mostrano che si possono sviluppare fenotipi molto diversi, includendo differenti pesi e differenti conformazioni fisiche. In particolare, topi che dovrebbero normalmente essere obesi acquisiscono un fenotipo magro se la loro madre è esposta a una dieta fortificata con colina, acido folico e vitamina B12, che influenzano la metilazione del DNA in un locus genetico particolare. Analogamente, in vari modelli animali, diete ad alto tenore di grasso durante la gestazione risultano associate a diverse espressioni geniche relative al metabolismo lipidico, a quello glucidico, alla regolazione dell’appetito. Questa espressione genetica alterata può influenzare il metabolismo lipidico e carboidratico della prole, con influenze sul fenotipo delle generazioni successive. Alcuni di questi effetti possono essere mitigati se la nutrizione post natale è correttamente bilanciata e, in particolare, se ha una adeguata composizione lipidica.
L’alimentazione materna durante la gestazione influenza anche il microbiota* della madre e dei suoi figli. In uno studio giapponese sui macachi, ad esempio, madri alimentate con tipica dieta occidentale, ricca di grassi animali, subiscono una traslazione verso specie del microbiota che influenzano il metabolismo lipidico e attivano meccanismi pro infiammatori. Questa modificazione si registra anche nella prole.
Alcuni studi sostengono inoltre che anche l’alimentazione paterna abbia un ruolo importante, poiché modificazioni epigenetiche sembrano agire sulle caratteristiche dello spermatozoo che fertilizza l’oocita. Nei ratti, ad esempio, una dieta paterna ad alto tenore di grassi provocava una disfunzione delle beta cellule pancreatiche nelle femmine della prole. Anche l’obesità paterna sembra influenzare la salute metabolica a riproduttiva della prole per molte generazioni. È chiaro, dunque, che l’alimentazione dei genitori può rappresentare un fattore epigenetico di grande impatto sul fenotipo comportamentale e metabolico della prole.
Questa mole di conoscenze, ancora in via di approfondimento e sviluppo, può contribuire ad approntare, in modo mirato ed efficace, progetti di prevenzione dell’obesità infantile, attraverso programmi di informazione e sensibilizzazione a partire dai percorsi di accompagnamento alla nascita, passando per quelli di supporto all’allattamento naturale e procedendo con l’educazione alimentare in età scolare e nell’adolescenza.

 

Note 

*la comunità di organismi unicellulari che vive in stretta associazione con il nostro organismo.

LA seconda immagine è tratta da IOM (Institute of Medicine). 2015. Examining a developmental approach to childhood obe- sity: The fetal and early childhood years: Workshop summary. Washington, DC: The National Academies Press.

Riferimenti e approfondimenti:

Joss-Moore LA et al. 2015. Epigenetic contributions to the developmental origins of adult lung disease. Biochem Cell Biol;93:119-27.

Lane RH. Fetal programming, epigenetics, and adult onset disease. Clin Perinatol 2014;41:815-31.

Majnik AV, Lane RH. 2015. The relationship between early-life environment, the epigenome and the microbiota. Epigenomics;7:1173-84.

Dobbs, D. 2013. The social life of genes. Pacific Standard, September 3.

Lillycrop, K. A., and G. C. Burdge. 2011. Epigenetic changes in early life and future risk of obesity. International Journal of Obesity 35(1):72-83.

Peterson J. Et al. 2009. The NIH human microbiome project. Genome Research 19(12):2317-2323.

Friedman J. E. 2015. Obesity and gestational diabetes mellitus pathways for programming in mouse, monkey, and man—where do we go next? The 2014 Norbert Freinkel Award lecture. Diabetes Care 38(8):1402-1411.

Kumar H. et al. 2014. Gut microbiota as an epigenetic regulator: Pilot study based on whole-genome methylation analysis. MBio 5(6): e02113-e02114.

Lane M. et al. 2015. Peri-conception parental obesity, reproductive health, and transgenerational impacts. Trends in Endocri- nology and Metabolism 26(2):84-90.

 

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Zucchero: da spezia antica a nemico moderno.

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Sebbene oggi lo zucchero sia il più comune e diffuso fra i dolcificanti, nel Medioevo era considerato una spezia, un condimento esotico molto apprezzato dalla Cristianità latina, ottenibile solo a caro prezzo per via commerciale ma coltivabile con relativa semplicità anche nel Mediterraneo. Le prime piantagioni di proporzioni consistenti pare fossero collocate in Sicilia, da cui fu esportato nel Quattrocento in Portogallo e successivamente nelle isole Canarie occidentali, in quelle di Capo Verde e del Golfo di Guinea. In breve, si trasformò nell’unico prodotto in grado di competere commercialmente con le spezie orientali. Il gusto molto apprezzato dello zucchero divenne popolare e molto richiesto, fino a sostituire in Occidente l’utilizzo del miele, nonostante i dolci fossero ancora considerati beni di lusso e relegati, dunque, alla tavola dei reali  di qualche famiglia nobile.
Da allora ad oggi, lo zucchero di strada ne ha fatta davvero tanta. Attualmente il suo consumo eccessivo e per un tempo prolungato è considerato una delle cause principali di disregolazione metabolica e aumento di peso. Non ci sorprende, vista la gradevolezza del suo sapore, la sua diffusione nell’alimentazione quotidiana e la facilità con cui è possibile reperirlo.
Ma quali sono i meccanismi attraverso i quali lo zucchero può danneggiare il nostro metabolismo?
Iniziamo facendo un po’ di chiarezza. Il saccarosio, o zucchero da cucina, è un dimero costituito da glucosio e fruttosio.
Il glucosio è il monomero il cui livello nel sangue (glicemia) e nei tessuti è regolato da ormoni particolari (fondamentalmente, insulina e glucagone). È utilizzato da tutti i tessuti e gli organi del corpo, e dal cervello come “carburante” preferenziale. Viene accumulato nel fegato e nei muscoli sotto forma di deposito (glicogeno), utile nei casi di digiuno prolungato (come quello notturno) o negli sforzi fisici improvvisi. Il glucosio proviene dalla digestione di alimenti ricchi di carboidrati, dall’utilizzo delle riserve di glicogeno o da processi di neosintesi effettuati dal fegato a partire da altre molecole (amminocacidi, acido lattico e glicerolo). Quando la quantità di glucosio nel sangue è eccessiva per lungo tempo, l’eccesso contribuisce alla formazione di acidi grassi che, inevitabilmente, innalzano la quota di trigliceridi presenti nel sangue.
12088159_831102997005223_3479382408958433296_nIl fruttosio è presente nella frutta e in alcuni ortaggi (carote, zucchine). Ma, oltre ad essere contenuto in questi cibi e nel saccarosio, esso è abbondante nello sciroppo di mais, detto anche sciroppo di fruttosio, presente in moltissimi prodotti industriali. La sua diffusione nella stragrande maggioranza degli alimenti confezionati è dovuta al fatto che, rispetto all’estrazione di saccarosio (da canna o barbabietola), la produzione di sciroppo di fruttosio è molto più economica.
Quali sono gli effetti dell’eccessiva assunzione di fruttosio? L’organo che li subisce in maggior misura è il fegato che, dopo aver trasformato una piccola quantità di questo zucchero in riserva energetica, comincia a produrre grasso che si deposita sulla superficie dell’organo (steatosi epatica non alcolica). Sono stati evidenziati altri effetti quali l’induzione di fermentazioni a livello intestinale con conseguente disbiosi a carico del microbiota e riduzione della sintesi di leptina, ormone che induce il senso della sazietà.
Sempre più spesso, oggi, si leggono sui social titoli allarmistici che additano lo zucchero quale uno dei cinque (o erano sette?) veleni della nostra epoca. La soluzione, però, non è escluderlo completamente dalla propria alimentazione, proprio come si farebbe nei confronti di un veleno, ma usarlo con moderazione, praticare quotidianamente attività fisica e associarlo correttamente agli altri alimenti. Pertanto, è importante sapere che l’aumento della glicemia può essere contenuto dalla presenza di fibra nello stesso pasto; diventa importante quindi consumare farine da cereali integrali e concedersi un dolce ogni tanto magari a fine pasto. Per quanto riguarda il fruttosio, quello contenuto nella frutta, in persone sane che ne consumano quantità adeguate, non sembra apportare danni al fegato. È importante invece ridurre, o meglio ancora evitare, i prodotti industriali che contengono sciroppo di mais, comprese le bibite edulcorate.

 

 

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