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Il lavoro del nutrizionista nell’obesità infantile

Sovrappeso e obesità in età evolutiva.
Il problema, in genere, ha radici profonde e questo concetto per molti genitori è una novità. Alle domande di che parto è nato, come è stato svezzato, qual è il vostro modello alimentare, potrei vedere il libretto pediatrico, si guardano fra loro e mi guardano con l’espressione incredula: cosa c’entra, sembrano chiedere a loro volta. Quindi, parto da lì, dall’incredulità, e cerco di capire da dove tutto è cominciato. A volte è semplice, altre no. Ci sono resistenze, spesso diffidenza nel percorso, la fatica di fronte al cambiamento, l’influenza delle mode alimentari, le informazioni fuorvianti del web. Certe frasi, negli anni, le ho memorizzate: a volte sorrido, altre mi sgomento.
Comincio dell’incredulità e mi armo di pazienza, rispetto e passione. Comincio da mamma e papà, che significa arrivare al bambino in punta di piedi, giocando, leggendo, raccontando storie, con la delicatezza che gli è dovuta.
Questo sarà l’argomento del webinar del 17 giugno dedicato ai professionisti.

Parole, gesti e storie per un’alimentazione sostenibile

Ieri, a Roma, all’Auditorium Parco della Musica E. Morricone, Francesca Mannocchi ha aperto i lavori del Festival “Libri come” incontrando ragazze e ragazzi delle scuole e riflettendo con loro sul potere dei libri e delle narrazioni: “Proviamo a fare un esercizio di pulizia su tutte le cose del mondo – ha detto la Mannocchi alla giovane platea – a cominciare dalle parole: vedrete che se cominciate a usare le parole avendone cura, cambia il mondo che avete intorno”.
È un esercizio universale, questo delle parole, che possiamo fare in ogni ambito della nostra vita e sperimentarne il risultato a breve e a lungo termine.
Con questa idea nella testa ho cominciato a riflettere sulle parole e le narrazioni lette nelle ultime settimane, relative ai cambiamenti climatici, alla riduzione della biodiversità, agli effetti della resistenza antibiotica. Alcune di queste letture sono ancora in corso e riguardano soprattutto testi sui quali vorrei scrivere prossimamente per Quaerere, la rivista a cui collaboro.

Intanto, ho cominciato a fare l’esercizio delle parole.

Parola n. 1: ritmo

immagine dal web

Il lavoro del Sesto Rapporto di Valutazione (qui il sito con il documento ufficiale), che ha coinvolto oltre mille scienziati provenienti da tutto il mondo, si è protratto per otto anni e si è concluso domenica scorsa in Svizzera con l’approvazione del Rapporto di Sintesi. Tra molti dati allarmanti, il messaggio finale tenta la strada dell’ottimismo: «Un’azione urgente per il clima può garantire un futuro vivibile per tutti – assicura il comunicato stampa finale —. Esistono opzioni multiple, fattibili ed efficaci per ridurre le emissioni di gas serra». Ma bisogna cambiare subito marcia: «Il ritmo e la portata di ciò che è stato fatto finora e i piani attuali, sono insufficienti per affrontare il cambiamento climatico» (corriere.it)

In altre parole, siamo lenti. Anche se, almeno in teoria, sappiamo molte cose sulle possibili strategie per arginare i cambiamenti climatici, l’azione sinergica dei governi non è stata e non è sufficientemente rapida da produrre un rallentamento sostanziale, men che meno l’inversione, del disastro climatico in corso.

Parola n. 2: cibo

Uh, che storia lunga e interessante ha il nostro cibo quotidiano!
L’agricoltura ha rappresentato in tempi molto remoti la salvezza del genere umano. “Negli ultimi 11.000 anni della nostra storia, ci siamo messi (…) a produrre da soli il cibo che ci serviva, domesticando animali e piante e trasformandoli in bestiame e coltivazioni. Oggi la quasi totalità degli uomini del pianeta si nutre di cibo che si è coltivato ed allevato da sé, o che è stato prodotto da qualcun altro per essere venduto” (1).
Più cibo a disposizione ha significato dapprima scampare al rischio di estinzione, e dopo, un aumento vertiginoso della popolazione mondiale. Ma essendo l’agricoltura faccenda alla mercé di Madre Natura, dopo molti millenni di tentativi, fatiche e fallimenti, ci si ingegna, come del resto si è abituati a fare dalla notte dei tempi, e si arriva, in epoca più recente, alla rivoluzione verde (secondo dopoguerra) che con il rinnovamento delle tecniche agricole e l’introduzione dei fitofarmaci e degli antibiotici, affranca la produzione di cibo dai capricci di Madre Natura, così da garantire la sopravvivenza e la crescita della popolazione mondiale.
Oggi conosciamo i danni che questa strategia ha prodotto. Dall’inquinamento delle falde acquifere all’impoverimento dei terreni e alla perdita di biodiversità che “parte dagli insetti e, a cascata, travolge interi ecosistemi, su cui aveva messo chiaramente in guardia la biologa Rachel Carson con il suo saggio Primavera silenziosa” (2).

In altre parole, siamo fregati: aria, acqua e suolo non sono più in grado di rigenerarsi; ogni anno arriviamo sgomenti all’Earth Overshoot Day, giorno in cui il nostro Pianeta ha ufficialmente esaurito la propria bio-capacità, ossia le risorse naturali a disposizione per ciascuno dei suoi abitanti per l’anno in corso. Come se fosse una novità. Come se non ne sapessimo nulla. Come si suol dire, caschiamo dal pero, ma presto non avremo più neanche il pero da cui cascare.
Sul suolo, tra l’altro, i dati sono davvero molto allarmanti: “Un terzo delle terre coltivabili è stato reso sterile o gravemente danneggiato dall’uso massiccio di sostanze chimiche e dalle pratiche dell’agricoltura intensiva, che brucia 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile ogni anno” (2).

“La morte del terreno è la forma di morte più intransigente, perché chiude qualsiasi possibilità di rinascita” (2).

Parola n. 3: azione

immagine di Elena Ricci

C’è un’azione che mettiamo in pratica a un ritmo elevatissimo e che, cambiandone le modalità, può avere un ruolo importante: è l’atto alimentare.
Sulla Terra siamo moltissimi (8,01 miliardi di individui all’inizio del 2023) e, almeno in questa parte fortunata del mondo, in cui il cibo non è un problema, in teoria sappiamo già cosa fare: ridurre drasticamente il consumo di fonti animali, evitare lo spreco e il packaging, scegliere frutta e verdura biologiche, di stagione e del territorio, eccetera eccetera. Si fa presto, però, a dire mangia vegetale: e se manca l’acqua? E se fa troppo caldo? E se il suolo è impoverito? E se i parassiti rovinano le colture?
Un recente saggio edito da EDT suggerisce lo studio dei progenitori selvatici delle piante edibili, capaci di adattamenti incredibili ad habitat e climi estremi. Sono molte le colture selvatiche antiche arrivate fino a noi grazie alla conservazione in Orti Botanici come quello di Palermo, o Parchi regionali come quello del Monte Linas-Oridda-Marganai in Sardegna. Ma anche alcune collezioni private e iniziative di appassionati di archeo-botanica hanno contribuito alla salvaguardia di specie vegetali molto antiche che contengono nel loro patrimonio genetico informazioni preziose sulle capacità di adattamento.
Prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva, “l’agrobiodiversità è stata un fattore di sopravvivenza per le società contadine perché garantiva un approvvigionamento costante per tutto l’arco dell’anno. In questo immenso paniere di frutta e verdura c’erano le varietà precoci, quelle tardive e altre che maturavano nelle più diverse condizioni ambientali. Ogni valle, pianura o litorale aveva un gruppo di ecotipi agricoli, adattati alle caratteristiche del clima locale, che poteva resistere alle avversità ambientali come le gelate primaverili. (…) Ma quello che, allora, era un catalizzatore di stabilità sociale ed equilibrio degli ecosistemi, oggi è stato sostituito dalla filosofia della monocoltura” (3).
Va bene lo studio delle specie antiche e tutto ciò che la ricerca riuscirà a produrre in termini di soluzioni e strategie, ma intanto noi cosa possiamo fare?

Parola n. 4: educazione

Ce ne sarebbero molte altre, di parole, a dire il vero. Rispetto, ad esempio, conoscenza, scelta, riflessione, responsabilità, cambiamento. Ma è sulla parola n. 4 che mi vorrei concentrare, convinta come sono che se è innegabile che l’essere umano è la causa di questo disastro, lo è anche il fatto che deve farsene carico a partire da subito, da quando comincia a mangiare, consumare, scegliere. Quindi, l’educazione ecologica è una priorità assoluta, e a tavola le lezioni iniziano molto presto. Riprendiamo la lista delle piccole azioni quotidiane che moltiplicate per molti milioni di persone possono produrre un cambiamento: ridurre drasticamente il consumo di fonti animali, evitare lo spreco e il packaging, scegliere frutta e verdura biologiche, di stagione e del territorio. Pensate che sia poco? Be’, prendetevi un po’ di tempo per leggere qualcosa in merito (bancoalimentare.it, food4future).

Immagine dell’autrice

Ma come fare a sostituire le cattive abitudini con scelte più virtuose? Se permettete ho qualche consiglio: innanzitutto, smettiamo di pensare al cibo come pozione magica per raggiungere un obiettivo estetico, cerchiamo di sganciare l’attività vitale della nutrizione da quella costruita su modelli inarrivabili che si modificano con il tempo e sono cultura-dipendenti. Pensiamoci come esseri complessi che, come tali, hanno bisogno di nutrienti adeguati alla nostra individualità, al nostro stato di salute, alla nostra età. Dovremmo smettere anche di “vivere per mangiare” e ricondurre la convivialità a un’azione naturale in cui il bello è stare insieme, non riempirsi fino a scoppiare. Un’altra attività che dovremmo ricominciare a praticare è la cura delle relazioni con i produttori: qualcuno lo fa già da anni, ad esempio, attraverso i gruppi di acquisto solidali; ma basta frequentare i mercati contadini, le botteghe di generi alimentari, gli agricoltori che vendono direttamente in azienda. La relazione è quella cosa straordinaria che permette la circolazione di concetti, idee, opinioni e soprattutto fiducia. Ne abbiamo tanto bisogno.
Altro consiglio interessato e, spero, interessante: cerchiamo di pensare al nutrizionista come a un esperto della complessità, non chiediamogli quale cibo fa dimagrire, qual è la migliore pietanza brucia grassi, quale integratore aumenta il metabolismo. Chiediamogli quello che sa fare meglio, per cui ha studiato molti anni e cioè capire come aiutarci a mangiare per stare in salute il più a lungo possibile: la salute dell’uomo viene dalla salute del mondo, e viceversa.
Ai nostri bambini insegniamo che il cibo ha la sua storia, attiriamo la loro attenzione con giochi e racconti che educhino ad alimentarsi in modo sostenibile. Se conosco il cibo, la sua storia, le narrazioni attorno ad esso, quelle che lo precedono e che lo seguono; se conosco ciò che mangio, la provenienza, gli effetti della sua produzione su di me e sul pianeta, se scelgo le parole giuste con cui chiamare il mio cibo, se educo il mio linguaggio e la mia comunicazione al rispetto per l’oggetto che ho nel piatto e per la sua storia, allora l’atto alimentare si trasforma: da un’azione automatica e senza significato, se non quello di riempire lo stomaco, diventa scelta consapevole con effetti sulla salute non solo mia, ma anche del territorio e degli altri.
Ma raccontare storie intorno al cibo è un’attività destinata a tutte le età. Si può raccontare a chiunque, la storia dell’uva di Belpasso nata sulla lava dell’Etna, oppure quella dei filari di Pantelleria o del Bosco di Don Veneziano, in Abruzzo, “maritati” con le querce. Si possono creare laboratori e gruppi di lettura o scrittura creativa, ad esempio, sul corbezzolo “unedo” dalla buccia ruvida e il sapore astringente; sul cedro dalla forma “digitata” per azione di un acaro detto delle meraviglie. Si possono disegnare mappe sulla melanzana che, coltivata per la prima volta in Cina, arrivò in Spagna e poi in Sicilia grazie agli Arabi, oppure sul viaggio del primo albero di mandarino, portato in Europa, anche questo dalla China, da un commerciante inglese che ne sognava la coltivazione in Gran Bretagna ma che dovette desistere per via del clima e vederlo partire per Malta e la Sicilia.

Parola n. 5: parole

Quindi, il cerchio si chiude con il senso della frase di Francesca Mannocchi, con la parola parole, e  perdonatemi il bisticcio. Facciamo l’esercizio di pulizia sulle cose del mondo: se curare le parole cambia il mondo che ci circonda, allora, facciamo attenzione a sceglierle bene. Cominciamo ad avere cura di ciò che ogni giorno mangiamo, diamo al nostro cibo un nome, una storia, un significato che vada oltre la moda e l’omologazione dei sapori e delle abitudini, un motivo imprescindibile per rispettarlo e per farne cosa preziosa qual è.

 

Testi citati
1. Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi
2. Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, Nottetempo
3. Fabio Marzano, I racconti delle piante. Viaggio curioso nel mondo vegetale italiano, EDT

 

 

Gruppo di lettura

Condividere competenze e saperi è alla base delle buone pratiche.
Vi aspetto nel mio studio per il primo gruppo di lettura dedicato alla selettività alimentare e alla neurodiversità. L’ingresso è libero.

E’ una iniziativa del Gruppo di Lavoro Disturbi Alimentari Precoci, in collaborazione con il Centro Il Colibrì di Pisa.
Interverrà online la dott.ssa Loredana Di Adamo, autrice del testo “Filosofia e clinica. Un nuovo approccio all’autismo di livello 1 e alla neurodiversità”, Negretto Editore.

Video-pillole sulla selettività alimentare

Foodinsider, che ringrazio, mi ha chiesto di parlare di neofobia e selettività alimentare: cosa sono, da dove originano, come si manifestano, quando diventano preoccupanti.

segui il link

 

 

Le parole giuste

Una delle cose più difficili per chi fa il mio lavoro è trovare le parole giuste per rispondere alle domande dei pazienti, per rassicurare le loro incertezze, consolare le loro frustrazioni, infondere coraggio e fiducia in sé stessi e nel percorso che stiamo costruendo insieme. La difficoltà è tanto maggiore quanto più è radicata nel paziente l’abitudine a un certo linguaggio autodenigratorio. Sono le parole, come in tutte le faccende umane, lo strumento della relazione, il ponte fra me e le persone che accolgo nel mio studio. E sulle parole, mie e altrui, spesso mi trovo a ragionare.

Ho sgarrato“.
Siete mai andati sul dizionario a curiosare sul significato di questa espressione? Il dizionario dice: “Nel gergo della mafia e della malavita, il delitto, punito di solito con la morte, di chi sottrae a un affiliato parte di un utile assegnatogli per decisione collettiva”. Non vi pare eccessivo per definire la trasgressione, cioè la tendenza umana e fisiologica a concedersi qualcosa di cui sentiamo il bisogno?
Quando una persona sale sulla bilancia pronunciando questa frase, “ho sgarrato”, sta manifestando la sua frustrazione, il suo enorme senso di colpa, il suo tradimento, il suo delitto. E io mi trovo a rispondere che le parole sono importanti, che se le impregniamo di sentimenti negativi automaticamente sottraiamo coraggio e fiducia alle nostre scelte.

Quali sono allora le parole giuste?

Quelle della nostra complessità.

Seguire un percorso nutrizionale significa nella maggior parte dei casi modificare radicalmente le proprie abitudini: fare la spesa seguendo nuovi criteri, organizzare la giornata e i pasti tenendo conto dei consigli del piano alimentare, cucinare le pietanze in modo diverso dal solito. Significa in definitiva imparare a vivere il cibo e il corpo in un modo più sano, un’attività complessa, come complesso è il nostro stare al mondo. Come possiamo aspettarci, dunque, che il nostro corpo e la nostra mente rispondano in modo semplice e lineare? Rispetto a quale regola ci sentiamo frustrati se le cose non vanno esattamente come avevamo previsto?
C’è questa parola, percorso, che io amo molto perché, in ambito nutrizionale, la sento nettamente contrapposta alla parola dieta, che invece aborro per il significato quasi funesto con cui viene spesso utilizzata. Sono a dieta, mi sono messa a dieta, sto facendo la dieta, mi tocca fare la dieta: sono tutte espressioni che tutti noi sentiamo ovunque, dal parrucchiere, al mare, nei negozi, nei ristoranti al momento della scelta delle pietanze. E sono tutte espressioni accompagnate da sentimenti negativi: rammarico, senso di colpa, nostalgia, tristezza, perché legate al concetto di rinuncia. Quindi, anche la parola dieta, nata bene (dal greco dìaita, stile di vita) e venuta su malissimo (sinonimo di rinuncia, costrizione, sacrificio) è diventata una parola sbagliata.

Ecco che allora torna la domanda: quali sono le parole giuste?
Le parole sono ceste da riempire: se ci mettiamo dentro cose belle e lusinghiere funzionano meglio, ci accompagnano e ci danno coraggio. Seguitemi in questo gioco:

Percorso: un passo alla volta si arriva alla meta, a volte s’inciampa ma ci si rialza e si prosegue; a volte ci si ferma a riposare e guardarsi intorno, ad ammirare il luogo dove siamo arrivati. Fermarsi è uno dei passi, tornare indietro per poi ripartire è parte del percorso. Non c’è un passo più giusto di un altro: c’è il cammino, c’è il nostro modo di stare bene, osservare, attraversare, tornare, stare al mondo, vivere appieno, adattarci. E se la meta cambia? Succede più spesso di quanto si immagini perché durante un percorso cambiamo anche noi.

Cambiamento: quante abitudini abbiamo cambiato nel corso della nostra vita? Siamo fatti così, noi umani, ci adattiamo, siamo elastici. E quante volte è cambiato il nostro corpo? E’ un sistema molto complesso e come tale non può essere rigido, fossilizzato, definito precisamente e per tutta la vita dallo stesso peso e dalle stesse forme. La sfida non è essere bravi, belli, magri, muscolosi, perfetti, somigliare a. La sfida vera è fare qualcosa per noi stessi e per la nostra salute, è essere noi stessi, lasciandosi cambiare dal percorso, adattandosi alle nuove abitudini e godere dei risultati.

Gratificazione: che fa rima con trasgressione (non con sgarro!). Gratificarsi significa essere elastici con sé stessi, avere a cuore i nostri sentimenti, ma anche il nostro corpo, trattarlo bene, concedersi la sospensione del giudizio, evitare di rinunciare troppo a lungo a qualcosa che ci procura piacere. Sottostare pedissequamente al concetto di rinuncia è spesso causa di compulsioni: concediamoci ogni tanto ciò che davvero ci gratifica, senza per questo sentirci in difetto.

Gusto: posso seguire un piano alimentare senza rinunciare al gusto? Certo che sì, lavorando sulle quantità e sulla sensazione di sazietà, imparando a cucinare in modo più sano ma gustoso, scegliendo bene le materie prime, aumentando il dispendio energetico attraverso l’attività fisica, facendoci coinvolgere dalla curiosità nei confronti delle nuove abitudini provando ad allenare il gusto a nuove percezioni.

Il gioco delle parole giuste potrebbe continuare all’infinito. Cercatele, riempitele di cose positive e lusinghiere, non esiste alcuna legge vieti di stare bene durante un percorso nutrizionale, nessun regolamento che imponga l’autofustigazione.

Tutto questo è molto umano, sapete, strettamente legato alle paure, al coraggio e all’ingegno che, dopo millenni di storia e di biologia, ci hanno portato fin qui. Dunque, perché stupirsi di certe risposte inattese? Perché scoraggiarsi al primo cedimento? Perché farsi del male con giudizi negativi su noi stessi e sul nostro comportamento? Perché tutte queste belle ceste piene di scoramento, frustrazione, modelli inarrivabili, autofustigazione, rinunce e sgarri? Perché?

Facciamoci un grande regalo: riconosciamo la nostra umanità e trattiamola bene. E poi, un passo dopo l’altro…

 

 

(L’immagine è tratta dal sito pixabay ed è libera da copyright)

 

Trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare: necessario il lavoro di squadra

I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) rappresentano una serie di patologie psichiatriche molto serie, caratterizzate dall’utilizzo del corpo come strumento d’espressione di un disagio psicologico profondo. Il cibo che lo nutre diventa un nemico da cui difendersi, oppure materia con cui riempire il vuoto interiore. 
Attualmente, l’anoressia e le altre forme di DCA sono da considerarsi fra le modalità patologiche maggiormente espresse dal disagio adolescenziale, soprattutto quello femminile.
Le cause non sono state ancora del tutto chiarite, sebbene alcuni fattori siano considerati determinanti nello sviluppo di queste patologie, definite culture-bound, in quanto la componente culturale occidentale (mode, modelli, tendenze sociali) appare in tutta la sua dimensione, paradossi e angosce compresi. Come per tutte le patologie psichiatriche, anche per i DCA  esiste una predisposizione genetica che può favorire il rischio di sviluppare malattia. Nonostante l’oggettiva difficoltà nel valutare questo tipo di rischio, alcuni studi riportano che soggetti con DCA hanno in famiglia una maggiore presenza (rispetto a famiglie di persone sane) non solo di disturbi dell’alimentazione, ma anche di depressione e di dipendenza.

In ogni caso, questa categoria di patologie, fra cui oggi si annoverano anche  la vigoressia e l’ortoressia, forse meno note ma non meno pericolose della anoressia e della bulimia, non può essere più considerata rara, né si può sottovalutare lo stretto legame con il contesto socio-culturale in cui viviamo.
Fra tutti i DCA, nell’anoressia nervosa sono presenti modificazioni nutrizionali tali da rappresentare un elevato rischio metabolico. I malati di anoressia, per lo più di sesso femminile, presentano una malnutrizione proteico-energetica di vario grado che può portare a morbilità fisica e psicologica e, a lungo termine, a morte. Dal progressivo dimagrimento e dalla perdita conseguente di riserve adipose si prosegue, nelle forme gravi, alla riduzione di massa muscolare, utilizzata a scopo energetico, e alla decalcificazione ossea che porta progressivamente a osteoporosi. Per contrastare gli effetti della malnutrizione il metabolismo e il sistema endocrino mettono in atto una serie numerosa e complessa di adattamenti finalizzati a mantenere in vita l’organismo (perdita delle mestruazioni, elevata produzione di corpi chetonici, alterazione della produzione di insulina e della funzionalità tiroidea). Le modificazioni fisiche e comportamentali conseguenti il digiuno protratto generano ansie e paure che mettono a dura prova il contesto familiare e il suo equilibrio. Data la varietà e la complessità delle conseguenze cui va incontro una malata di anoressia, è evidente che il trattamento di questa patologia deve essere multiprofessionale e coinvolgere, cioè, competenze varie e complementari fra di loro.
Nella mia pratica, sempre più spesso, purtroppo, incontro famiglie con questo problema. Nel caso di ragazze molto giovani (dai dieci ai sedici anni, negli ultimi anni l’esordio è ancora più precoce), sono in genere le madri ad allarmarsi  e chiedere aiuto, una volta sparito il mestruo o appena realizzato che il calo di peso è stato repentino e che perdura nel tempo. Le ragazze più grandi, invece, arrivano nel mio studio con la richiesta (paradossale) di una dieta che ne riduca ancora il peso e le circonferenze. Dietro ogni caso di anoressia in genere ci sono dinamiche complesse che vanno necessariamente e urgentemente affrontate con l’aiuto di altri professionisti. Il supporto nutrizionale, insomma, è fondamentale, ma non può bastare a sciogliere i nodi che hanno condotto alla manifestazione della patologia.
I miei percorsi sono sempre affiancati e coadiuvati dal lavoro, prezioso, paziente e competente di figure come lo  psichiatra, il neuropsichiatra infantile, lo psicoterapeuta, oltre che il ginecologo e altre figure riabilitative, a seconda dei problemi che via via si presentano. Il percorso dei vari professionisti va di pari passo al mio e, a ogni occasione, sollecita, supporta, completa e contiene, ogni intervento sul piano alimentare, ogni variazione di peso, ogni passo in avanti e ogni fallimento. E’ necessario, infatti, lavorare su aspetti quali la dispercezione corporea, il perfezionismo clinico, la rigidità, la bassa autostima, l’eccessivo controllo sul proprio corpo e sui suoi bisogni. Si tratta di un lavoro paziente e complesso, ma anche arricchente e gratificante che deve coinvolgere, oltre alla paziente, i suoi familiari. Posso dire, senza ombra di dubbio, che i casi che ho seguito con maggiore soddisfazione e con migliori risultati sono stati quelli in cui l’intera famiglia si è sottoposta a trattamento psico-educativo, collaborando a ogni fase del percorso. Oltre alla multidisciplinarietà e al coinvolgimento delle figure di riferimento, c’è da mettere in conto anche un altro fattore fondamentale: il tempo.  Ho imparato molto presto che la sofferenza e il disagio che accompagnano un DCA sono tali da creare, soprattutto nei familiari, l’aspettativa di una soluzione immediata. Ma, essendo queste patologie, la punta di un iceberg sommerso, è necessario concedersi il tempo di acquisire gli strumenti adeguati per affrontare il percorso verso la guarigione, mettendo in conto gli alti e i bassi tipici di questi disturbi e procedendo con tenacia e fiducia. E’ un tempo necessario quello che si interpone fra i primi momenti successivi alla diagnosi (psichiatra, neuropsichiatra infantile, altra figura medica specialistica) e l’inizio del miglioramento fisico e psichico della paziente; un tempo in cui ogni dinamica, ogni dubbio, ogni sofferenza devono trovare la loro collocazione, la loro giustificazione e accettazione.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una maggiore diffusione e un abbassamento dell’età di esordio di tutti i DCA, in particolare di quelli selettivi/restrittivi ce di quelli compulsivi. Inoltre, le drastiche restrizioni sociali resesi necessarie negli anni di pandemia hanno avuto importanti conseguenze sui soggetti più fragili, con un inasprimento dei sintomi e una maggiore frequenza di esordio fra i più giovani. In Italia si stima un aumento di c.a. il 40%.
In coerenza con il dato nazionale, anch’io ho registrato una maggiore incidenza e un abbassamento dell’età di esordio. In particolare, sono due gli aspetti che risultano più allarmanti, oltre che più frequenti: 1) la maggiore frequenza e diffusione nei piccoli (anche al di sotto dei tre anni) dei disturbi selettivi/restrittivi e 2) il carattere sfumato di molti dei disturbi cibo-correlati (nell’età evolutiva in generale). Infatti, molti degli accessi al mio studio riguardano bambini anche al di sotto dei cinque anni che spesso soffrono del disturbo che nel DSM-5 (2013) viene definito Disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID: Avoidant/restrictive food intake disorder). E’ una nuova categoria diagnostica che raccoglie i casi in cui l’assunzione di cibo è insufficiente e non si associa (come avviene per altri disturbi alimentari classici) con l’attenzione morbosa alle forma corporee. In letteratura, alcuni autori distinguono tre tipologie di ARFID: 1) disinteresse per il cibo e l’atto alimentare; 2) iper suscettibilità sensoriale verso gli alimenti; 3) la paura di eventuali conseguenze avverse all’atto alimentare (soffocamento, vomito, nausea, dolori addominali).

A Pisa è presente un gruppo di lavoro sui Disturbi Alimentari Precoci , da me coordinato, che si occupa di prevenzione, diagnosi e trattamento. Ho fondato questa realtà in collaborazione a molte figure con cui collaboro da anni (Centro Il Colibrì), convinta della necessità di offrire aiuto e supporto alle famiglie investite da queste problematiche complesse e faticose; fiduciosa, come sempre, che il lavoro di squadra sia la soluzione più efficace.

 

Per informazioni sul gruppo Disturbi Alimentari Precoci scrivere a giusi.d’urso@libero.it

Per approfondire:

ARFID- Rachel Bryant-Waugh- Positive Press
Terapia cognitivo-comportamentale per il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo – J. Thomas, K. Eddy – Positive Press
Il cibo dell’accudimento – Giusi D’Urso – MdS Editore
Anoressie e bulimie. Massimo Cuzzolaro, Il Mulino
Psicodinamica dell’alimentazione nella prima infanzia
Sito AIDAP, Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso

 

 

 

 

Disturbi Alimentari Precoci – E’ nato un gruppo di lavoro

A Pisa è appena nato un gruppo per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dei Disturbi Alimentari Precoci, coordinato dalla dott.ssa Giuseppina D’Urso  e in collaborazione con Centro Il Colibrì.
Il gruppo si occupa in particolare dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione che insorgono in età precoce con quadri di selettività/restrizione  o di compulsione.
Si avvale di varie figure professionali che lavorano in team: nutrizionista, neuropsichiatra infantile, logopedista, neuropsicomotricista, psicoterapeuta. Altre competenze, come quelle dell’osteopata, vengono reclutate per quadri particolari che ne richiedano l’intervento.

Conosciamo meglio il team.

 

Dott.ssa Giuseppina D’Urso
BIOLOGA NUTRIZIONISTA, PATOLOGA CLINICA

Fondatrice e coordinatrice del gruppo
giusi.durso@libero.it
tel. 347 0912780

Dott.ssa Alessandra Burgo
TERAPISTA DELLA NEURO E PSICOMOTRICITÀ DELL’ETÀ EVOLUTIVA E PSICOMOTRICISTA FUNZIONALE
Centro Il Colibrì

 

 

 

Dott.ssa Sarh Guidi
TERAPISTA DELLA NEURO E PSICOMOTRICITÀ DELL’ETÀ EVOLUTIVA E TERAPISTA DIR201 (DIR-FLOORTIME BASIC)
Centro Il Colibrì

 

 

Dott.ssa Maria Cielo Rondoni
LOGOPEDISTA
Centro Il Colibrì

 

 

 

Dott.ssa Sara Greco
LOGOPEDISTA E TERAPISTA DIR201 (DIRFLOORTIME-BASIC)
Centro Il Colibrì

 

 

 

Dott.ssa Valeria Bossio
PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA PSICODINAMICA INTERPERSONALE E TERAPEUTA EMDR
Centro Il Colibrì

 

 

Dott.ssa Elisa Panicucci
PSICOLOGA DELLO SVILUPPO E DELL’EDUCAZIONE
Centro Il Colibrì

 

 

Oltre che con la figura del Nueropsichiatra infantile de Il Colibrì, il gruppo collabora e si integra con la competenza del dott. Antonio Di Presa, osteopata e podologo

Per informazioni sulle attività, sulle modalità di accesso per una prima valutazione e sulle tipologie di percorso scrivere a giusi.durso@libero.it o telefonare al 347 0912780.

Sindrome dell’intestino irritabile – collaborazioni

Oggi il blog ospita un articolo scritto insieme al dott. Antonio Di Presa, osteopata. L’argomento è la Sindrome dell’intestino irritabile. 
Buona lettura!

In una situazione mondiale dove l’aspettativa di vita va sempre più allungandosi, aumentano vertiginosamente i disturbi di tipo cronico a cui diventa necessario far fronte, e tra questi, molti ricadono a livello dell’apparato gastro-intestinale.

img: thawkwardyeti.com

Una delle situazioni più difficili da gestire è la sindrome dell’intestino irritabile (IBS, o Irritable Bowel Syndrome).

Questo articolo, scritto a 4 mani con la dott.ssa D’Urso, nasce quindi dalla necessità di dare informazioni affidabili su questo complesso argomento, peraltro mai abbastanza conosciuto.

Istruzioni per l’uso

Trattandosi di un approfondimento piuttosto lungo (tempo di lettura: 10 minuti), vorrei riassumere qui i punti chiave per tutte quelle persone che vorrebbero saperne di più, ma non hanno del tempo da dedicare a questo tema:

  • La sindrome dell’intestino irritabile, la cui causa è ancora dibattuta, è diffusissima e mal gestita;
  • Spesso i sintomi hanno un forte impatto sulla qualità di vita della persona affetta;
  • È possibile migliorare lo stato delle persone con IBS attraverso una dieta ed una integrazione probiotica adeguata;
  • Studi molto promettenti vedono nell’osteopatia un valido complemento per alleviare i sintomi da IBS.

Fine.

Soddisfatti? No? Allora, l’articolo per intero è quello che fa per voi. Buona lettura!

Continua a leggere

 

Il prossimi gruppi di educazione alimentare online

Da quando la pandemia ci ha costretti a modificare le nostre abitudini professionali e comunicative, ho adeguato i gruppi di educazione alimentare che organizzavo in presenza nel mio studio. Da un anno circa, quindi, i gruppi si svolgono con modalità smart, approfittando delle numerose piattaforme di facile utilizzo.
Il primo gruppo che sta per essere attivato è quello sull’adolescenza.
A seguire, ci saranno quello dedicato al microbiota intestinale (in programma per la seconda metà di aprile) e l’ultimo di questo primo semestre 2022 dedicato all’alimentazione in menopausa.

 

 

 

 

I gruppi sono aperti a tutti e hanno le seguenti caratteristiche: non hanno valore professionalizzante, si pongono come obiettivo quello di fornire strumenti di comprensione e gestione dei problemi legati al tema affrontato. Non vengono rilasciati piani alimentari, attestati, materiali didattici. Gli incontri non vengono registrati. Ogni gruppo ha il costo di 75 € e la durata di due incontri di due ore l’uno.Per maggiori informazioni è possibile scrivere a giusi.durso@libero.it

 

Di seguito una mia breve biografia.

Giuseppina D’Urso è biologa nutrizionista, specialista in patologia clinica, con perfezionamento in patologia molecolare. Insegna nutrizione clinica all’università di Pisa e principi di dietologia all’università di Bari. È autrice di diversi saggi divulgativi.