Archivio mensile:dicembre 2013

Cibus in fabula

1512600_502325426544960_728866758_nCammina cammina, sbriciolando con perizia il pane per ritrovare la strada del ritorno, un bimbo alto quanto un pollice intravide, nel bosco fitto fitto, una bambina con la mantella rossa che recava con sé un cestino pieno di focaccia. Fu tentato, allora, di seguirla, tanto era invitante quell’aroma di cose buone appena sfornate che si andava diffondendo fra gli alberi. Alla fine, però, decise di proseguire per la sua strada. La sua scelta fu premiata da una visione celestiale: una casetta di marzapane e leccornie di ogni genere. Che strana casa – pensò avvicinandosi. La porta incastonata fra confetti e biscotti, le finestre socchiuse con sporti di torrone e frutta candita. Che meraviglia! Sarebbe rimasto incantato tutto il pomeriggio e avrebbe anche fatto qualche assaggio se non fosse stato distratto dal fragore e il polverone alzati  da un’enorme zucca gialla tirata da cavalli lanciati al galoppo!

Perbacco! Un po’ di rispetto per chi va a piedi! – borbottò.

Subito dopo, riprese il cammino, continuando a sbriciolare il suo tozzo di pane, fino a quando, al bordo del bosco, lungo una vigna ben curata incontrò una volpe che vociava e spettegolava contro un grappolo d’uva nera e poco più in là una vecchia bitorzoluta che carezzava una mela rossa, cantilenando fra sé e sé una formula magica.

Ce n’è sono di stranezze in questo bosco – pensò – ma non si dette pena più di tanto e continuò il suo cammino, ignaro che poco più avanti si sarebbe trasformato nell’ambito pranzo di un orco così cattivo che ancora, ogni tanto, me lo sogno anch’io!

Cari lettori, basta fare un piccolissimo sforzo di memoria per ricordare le favole di cui abbiamo fatto scorpacciate da bambini e per individuare in ognuna di esse almeno un cibo, carico di simbologie e significati profondi. In realtà (anche se nelle favole di codesta ce n’è davvero poca!), si tratta spesso di “presenze” funzionali alla storia e quindi di “veicoli” attraverso i quali far passare messaggi con maggiore facilità.

Perché proprio il cibo? – vi chiederete. La risposta è a portata di mano, sapete?

Pensate alla strega cattiva che offre a Biancaneve un fiore o un pettine avvelenato. Pensate a Pollicino che, per individuare la strada del ritorno, lega brandelli di stoffa ai cespugli e ai rami degli alberi; o a Cenerentola, che si fa portare al ballo in una carrozza vera, o in biciletta! Pensate, infine, alla povera Cappuccetto Rosso con un cestino vuoto oppure pieno di panni da far stirare alla nonna!

Niente da fare, il cibo è più affascinante, coinvolgente, stuzzicante, magico, miracoloso. È qualcosa di familiare, direi irrinunciabile, che diventa noi e di cui abbiamo, o dovremmo avere, rispetto. In alcune favole addirittura si identifica con noi stessi, che diveniamo cibo per orchi ed altre creature fantastiche, mentre si risveglia quell’atavico terrore di essere mangiati, anziché ed ancor prima di mangiare!

Cibus in fabula est, come nei racconti d’infanzia dei genitori, in cui c’è sempre qualcuno che non vuole mangiare e qualcun altro che invece mangia troppo; come nei racconti di guerra dei nonni, in cui i cibi più poveri diventano una benedizione. E tutti a bocca aperta ad ascoltare; tutti attenti e curiosi a far domande, per imparare dagli altri la vita, sgranocchiando magari un buon biscotto di pasta frolla.

Detta così, sembra una storiella di tempi lontanissimi; mentre, posso assicurarvi, che non sono passati poi così tanti anni. Cos’è accaduto? I bambini hanno ancora bisogno delle favole, i nonni hanno ancora bisogno di raccontarle, anche se il mondo è cambiato in fretta e Cappuccetto rosso vagabonda nel bosco con le cuffie nelle orecchie e il paniere pieno di tè alla pesca e merendine confezionate che non profumano per niente; Pollicino non ha paura di perdersi perché verrebbe localizzato tramite il suo cellulare; Biancaneve non rischia la vita perché non mangia né frutta né verdura, la volpe non disprezza l’uva perché deve darsi troppa pena per trovare un bel campo coltivato e Cenerentola prende comodamente un treno ad alta velocità che la porta dritta al castello!

Eppure, in questi giorni di festa, ho sbirciato (e non me ne vogliate!) attraverso qualche finestra e ho visto mani che impastavano e teste curiose di bimbi gironzolare per la cucina piena di colori e di teglie da infornare. Nulla è perso se ancora qualcuno fa i biscotti, e se qualcuno ancora li mangia, ridendo e giocando con le dita sporche di farina.

Anche questa sembra una favola; invece, credetemi, è realtà!

Pubblicato su manidistrega.it

 

La recensione pubblicata su Il Gazzettino!

Giusi D’Urso ci “racconta” la terra.
di Rodolfo Amodeo

 

Una nuova pubblicazione della biologa nutrizionista, originaria di Francavilla di Sicilia, sull’importanza ed il “fascino” di una corretta alimentazione basata sui prodotti agricoli coltivati in maniera naturale, così come facevano i nostri nonni

     Con l’ultima sua fatica editoriale “Ti racconto la terra”, Giusi D’Urso, biologa nutrizionista e patologa clinica originaria di Francavilla di Sicilia e residente a Pisa ormai da trent’anni, è riuscita ancora una volta a coniugare la sua professione con l’amore per la scrittura. In questa sua nuova pubblicazione, edita per i tipi della “ETS”, affronta infatti con abile stile divulgativo le varie tematiche legate alla buona e sana alimentazione derivante dall’uso dei genuini prodotti dell’agricoltura. Ed alle interessanti informazioni e considerazioni dell’autrice, si intervallano le testimonianze e gli “amarcord” di Stefano Berti, direttore della “Confederazione Italiana Agricoltori” (C.I.A.) di Pisa, sull’antico mondo contadino.

Nelle cento pagine di “Ti racconto la terra”, Giusi D’Urso invita il lettore a seguire uno stile nutrizionale “in simbiosi” con l’ambiente in cui vive, evitando tutti quegli alimenti propinati dalle mode e dalla pubblicità, ma che non appartengono alla nostra cultura alimentare e che, soprattutto, vengono prodotti “forzando” i processi biologici naturali pur di soddisfare le esigenze dell’industrializzazione e della globalizzazione.

E, quasi parafrasando il vecchio motto “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”, la biologa siculo-toscana dimostra la stretta correlazione tra l’odierno “modus vivendi”, all’insegna della fretta e della superficialità, ed il contenuto dei nostri piatti, dove regnano sovrani alimenti industriali di facile e veloce preparazione, ma ricchi di additivi, grassi e zuccheri e poveri di vero nutrimento.

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A La Dolce Linea si parla di Ti racconto la terra e di Nutrizione infantile

Venerdì 15 novembre La Dolce Linea – con Tiziana Stallone e Sara Sanzi

Ecco il podcast

 

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Le ore piccole in radio!

 

 

In occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, ho fatto le ore piccole con RadioRAI1!

Ecco il podcast della trasmissione

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Inutilmente fortificati

Il termine “fortificazione” viene utilizzato per indicare l’aggiunta a un alimento di micronutrienti (sali minerali, vitamine, ecc.) che lo rendano maggiormente nutritivo. La nascita di questi prodotti risale agli inizi del secolo scorso e trae origine dalla volontà di far fronte alle patologie causate da carenze vitaminiche e micronutrienti. Nei primi decenni del novecento comparvero, dunque, i primi alimenti fortificati: in Danimarca la margarina con vitamina A, in molti paesi europei e statunitensi la farina con ferro e vitamine del gruppo B.

Assodata la sua utilità in alcuni particolari contesti, a me, che vivo in Toscana, famosa per la varietà, la ricchezza e la qualità dei suoi prodotti alimentari, francamente, la fortificazione alimentare preoccupa non poco. Non voglio fare la guastafeste, ma ho la netta sensazione che i consumatori, inevitabilmente, percepiscano tali cibi (in genere, industriali) come “migliori”, più sani e salutari, tendendo a sceglierli a priori. “Mio figlio non mangia il pesce, ma gli compro il latte con gli omega tre!”, “I miei figli non mangiano la frutta, ma consumano ogni mattina un succo con le vitamine A, C ed E e cereali con fibra aggiunta”, e così via. Ebbene, complice anche l’estrema accessibilità di questi prodotti (si trovano facilmente sugli scaffali dei supermercati) si rischia a mio avviso di diseducare al buon cibo, all’alimentazione varia e colorata, alla scelta e al gusto e si finisce per giustificare ed arrendersi a determinati rifiuti, senza nemmeno provare a superarli. D’altra parte, un’alimentazione varia ed equilibrata, in condizione fisiologiche, non necessita affatto di integrazioni e fortificazioni. L’importante è nutrirsi di alimenti stagionali, prodotti nel territorio in cui viviamo, freschi e colorati come solo Madrenatura è capace di produrre. Avete provato a fare un giro in un’azienda agricola toscana in questa stagione? Le Brassicacee ci offrono uno spettacolo variopinto, con i loro cavoli e le loro verze. A ogni colore corrisponde una ricchezza di micronutrienti capaci di proteggerci da svariate malattie. Che dire, poi, dei nostri piatti tradizionali come la ribollita, la zuppa toscana, ricchi di fagioli e cavoli (verza e nero)! Essi recano con sé la saggezza contadina che associa gli ortaggi dell’orto ai legumi e il pane casalingo (cereali), rispondendo ai fabbisogni dell’organismo e gratificando il palato. D’altra parte, per fare un pieno di vitamine e fibra è importante anche consumare frutta fresca, matura al punto giusto e sceglierla colorata e profumata. Non dimentichiamo, poi, di trascorrere più tempo possibile all’aria aperta e di muoverci quotidianamente, per aiutare il nostro organismo a produrre vitamina D e a fissarla nelle ossa.

In conclusione, dunque, come comportarsi, quindi, davanti alla scritta “con l’aggiunta di …”? Come si faceva saggiamente un tempo davanti a qualsiasi acquisto: chiediamoci se ne abbiamo davvero bisogno.

Articolo apparso su Il Tirreno il 16 dicembre 2014

 

 

 

La pazienza per noi stessi

A volte alcuni gesti ci sembrano, dopo il tempo di un rapidissimo ritorno alla razionalità, sciocchi e, in fondo, privi di significato e di buon senso. La verità, invece, è un’altra. Gli slanci che illuminano o rabbuiano una giornata o un solo istante sono, forse, risposte sensate a richieste del nostro corpo e della nostra mente che non riusciamo a decifrare. E quando dico corpo, così come quando dico mente, intendo quella “chimica” che è segnale preponderante e atavico e che domina su tutto. Facciamocene una ragione.

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Capita quindi di ritrovarsi ad abbracciare un albero, di correre incontro a un amico che ci è mancato, di piangere per la fine di un film o di riempirci di cibo fino a scoppiare. Capita e ci sembra fuori da ogni logica e dalla “fisiologia”! Ma, quando si parla di risposte chimiche a un qualche bisogno, sia esso fisico o psichico, come facciamo a stabilire con assoluta certezza cosa è fisiologico e cosa, invece, non lo è?

Mi capita spesso di ascoltare il racconto di giovani donne che, in momenti di estrema solitudine e frustrazione, ingurgitano cibo senza sosta e, soprattutto, senza fame. E me lo raccontano con le lacrime agli occhi, terrorizzate dall’essere irrimediabilmente compulsive.
E’ preoccupante, sì, registrare un aumento di questi comportamenti, anche fra i ragazzi e le donne più avanti con l’età. Ma lo è ancora di più notare che, nella nuova e legittima consapevolezza delle persone, maturi il concetto che tutto ciò che accade deve avere necessariamente un nome ed essere assolutamente catalogato come fisiologico o patologico.

Se mangio per una giornata in modo disordinato mi verrà il colesterolo alto; se ieri ho mangiato tutto il pomeriggio senza riuscire a smettere sono bulimica; se mi concedo qualche ora sul divano sono sedentaria, ecc. ecc. Si rischia, così di definire categorie rigide, omologanti, che appiattiscono le identità; che le negano e a volte le annullano.
Per fortuna, invece, non siamo né provette in cui, una volta inseriti determinati reagenti, avremo ovvi prodotti; né scatole Lego, da montare con le istruzioni senza permettersi distrazioni. Siamo dotati di istinto, emozioni, bisogni che insieme compongono ciò che siamo, con i nostri limiti, i nostri punti di forza, le nostre fragilità e i nostri comportamenti.

Se un giorno, quindi, vi capiterà di abbracciare un albero non convincetevi di essere folli, ma solo sensibili e felici di vivere in armonia con la natura. Se vi capiterà di mangiucchiare per tutto il pomeriggio, non sentitevi in colpa; perdonatevi quelle ore di “distrazione” dalle regole e di compensazione di una qualche frustrazione. Se rimarrete silenziosi ed introversi per qualche ora, non sentitevi asociali o depressi, ma solo bisognosi di tempo per rielaborare le vostre emozioni.
Se un inciampo diventa quotidianità, allora sì, andate fino in fondo; ma se esso rimane sporadico abbiate pazienza con voi stessi per quei gesti e quei bisogni fuori dalle righe che ci rendono tanto umani!

 

La cucina di Anna

DSCN5378Quando Anna era piccola le era proibito entrare in cucina durante la preparazione dei pasti. Sua madre la teneva lontana e non si curava della curiosità della piccola, perché la cosa più importante era non sporcare, non infastidire, non curiosare.
Quando sarai grande – diceva – cucinerai quando sarai grande. Adesso tocca a me, tu non sai nemmeno dove mettere le mani.
Nessun odore, dunque; nessun sapore, nessun gusto né disgusto per la piccola Anna, che moriva dalla voglia di pasticciare, impastare, sminuzzare.
Non era adeguata – dicevano. Non sarebbe stata capace.
Così lei imparò a restare distante e si convinse di essere incapace. Addirittura, si convinse di non amare quel luogo così caldo e pieno di magia che era la cucina della casa di famiglia. Rifiutò di sentirsi parte di qualcosa da cui era stata forzatamente allontanata. E così, difatti, fu.

Anna divenne presto una donna e s’innamorò. La cucina della sua nuova casa le si spalancò davanti, misteriosa, come la sua nuova vita, facendola sentire appassionata e creativa.
Trascorrevano ore, lei e lui, a preparare pietanze da condividere prima con gli amici, poi con i figli che arrivarono. Lei scoprì di essere fantasiosa e di amare curiosare fra nuove ricette e nuove creazioni culinarie. Si sentì ricca di cose belle, piena di sorprese da donare, colma di gioia e di idee.
Col passare degli anni, però, quell’uomo che credeva di conoscere bene e di amare profondamente cambiò. O forse fu lei a cambiare, ma questo poco importa. Quello che importa, invece, è che Anna fu allontanata di nuovo da quel luogo magico che l’aveva resa così felice e fatta sentire così utile. Lui prese “le redini della cucina”, come amava declamare con orgoglio davanti a parenti ed amici; lei era inadatta, poco adeguata…come da bambina.

Ma presto Anna rivolle indietro il suo tempo, anche quello fra i fornelli e non si trattò del capriccio di una bambina un po’ cresciuta, ma, al contrario della richiesta legittima e sacrosanta di accudire e ad esprimere ciò che era, o avrebbe voluto essere, attraverso il cibo e le azioni che da sempre, da tempi antichissimi, connotano l’attitudine umana a comunicare. Le sue pietanze non sarebbero state perfette; le ricette sarebbero state inventate; i suoi figli sarebbero rimasti interdetti o incuriositi, ma cosa importava? Anna desiderò provare ad essere finalmente se stessa e, con la tenacia sopita in quel cuore affamato di vita, riconquistò il suo luogo dell’essere e ricominciò dal punto in cui aveva abbandonato se stessa…

Anna esiste davvero, ma ha un altro nome. La storia che vi ho raccontato mi è stata donata, con rabbia e generosità, da una donna in cerca della strada per essere felice, recuperando se stessa e tutto ciò che un’infanzia sbagliata le ha tolto. Di lei e delle sue parole accorate, mi ha colpito l’assenza di pianto e rimpianto. Mi hanno fatto riflettere la tenacia e la passione con cui mi ha descritto il distacco da cose che aveva appena sentito sue. Mi ha intenerito la voglia di recuperare ogni briciola di vita persa per la strada.
Resto in silenzio e rifletto, adesso, augurandole tutto il bene del mondo.

A scuola di esperienza

 

 

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Amo l’estate, ma accolgo i primi freddi come una buona occasione per rimettere ordine.
Questo faccio oggi, metto ordine. E riguardando le fotografie dei laboratori di educazione alimentare che, negli anni, ho avuto il piacere di condurre, sorrido e penso che tutto ciò che s’impara da bambini lascia un  a traccia che accompagna per sempre.

Nella mia infanzia ho avuto la fortuna di partecipare a un magnifico inimitabile “laboratorio”, quello della natura che, di stagione in stagione, scandiva il tempo e le usanze a tavola; donava i suoi frutti al tempo giusto e nessuno si chiedeva perché. Era tutto talmente chiaro e semplice!

Quelle esperienze sono ancora così presenti dentro di me e mi hanno fatto talmente tanta compagnia che credo fermamente e irrimediabilmente nel valore della didattica esperenziale; in quella disciplina, cioè, che utilizza l’esperienza diretta e si avvale di strumenti semplici ed efficaci, della manipolazione e dell’emozione, dei cinque sensi e delle buone idee, delle soluzioni estemporanee e dello spirito di adattamento.

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Integrazione nutri-culturale

DSCN6549I modelli alimentari e le tradizioni culinarie fanno parte del patrimonio culturale di ogni individuo, così come le sue origini e il suo linguaggio. La storia ci insegna che il cibo identifica ma, necessariamente, differenzia. In caso di emigrazione, di fatto, lo stile alimentare è l’ultimo a modificarsi, ma anche ad essere compreso e accettato.

Gli ostacoli ad una integrazione alimentare fra popoli di cultura diversa ha radici lontane e si basa fondamentalmente sulla estrema difficoltà nel cambiare i propri gusti. La cucina tradizionale, legata per definizione al territorio e alla sua storia, permea il palato, diviene omologante in quel dato contesto collettivo, rendendo in genere diffidenti, insofferenti o indifferenti nei confronti di altri sapori. Il cibo, dunque, non è facilmente trasferibile da una cultura all’altra.

Tuttavia, a mio avviso, esistono delle eccezioni, una agli antipodi dell’altra, che demoliscono barriere culturali e diventano insospettabili strumenti di integrazione.

La prima è rappresentata dal Modello Alimentare Mediterraneo (MAM), che si distingue per equilibrio e completezza, è preventivo nei confronti di malattie metaboliche e cardiovascolari ed in realtà rappresenta una cultura, un modus vivendi, che va al di là del semplice atto di nutrirsi. Esso origina dalla cultura greca e le invasioni che si sono succedute nel corso della storia hanno apportato, alle abitudini alimentari pregresse, novità e cibi insoliti che sono stati integrati nel tempo divenendo, a tutti gli effetti, parte delle nostre abitudini alimentari. Ne sono un esempio il pomodoro dall’america latina, molte spezie, introdotte dai romani con i primi viaggi in terre da conquistare, usate nel medioevo europeo per conservare i cibi, e che presto divennero quasi uno status simbol che differenziava le tavole dei ricchi da quelle dei poveri. È il modello alimentare che ci identifica, nato dalle scelte parsimoniose delle nostre campagne e teorizzato dal biologo Ancel Keys negli anni ’40 del secolo scorso. Il Mediterraneo, ovvero tutte le popolazioni che ad esso si affacciano, ha condiviso, pur nella sua eterogeneità di culture e civiltà, pur nella sua varietà di metodologie culinarie, l’importanza dell’alimentazione quale elemento strettamente connesso all’uso del territorio e all’impatto di questo uso sul paesaggio agricolo, selvatico ed urbano.

Un’altra eccezione, capace di demolire barriere culturali in modo più potente e pregnante della prima è la globalizzazione alimentare, ovvero ciò che alcuni studiosi chiamano genericamente col nome di macdonaldizzazione, volendo significare la standardizzazione estrema dei prodotti alimentari che conduce ad una ristorazione completamente integrata di un numero sempre crescente di persone. Con l’industrializzazione del settore alimentare, almeno nel mondo occidentale, si assiste ormai da diversi anni all’abbattimento di barriere culturali, superando persino la naturale diffidenza che il cibo nuovo ed “estraneo” suscita fisiologicamente. La familiarità e l’accondiscendenza che ogni cibo doveva prima meritarsi per essere considerato parte della propria alimentazione è stata soppiantata dalla fiducia incondizionata nel brand. La televisione ha fatto da passepartout, è entrata nelle nostre case e, in moltissimi casi, ha decretato il successo dei nuovi alimenti.

Abolendo e livellando differenze, grazie al basso costo e alla sua estrema palatabilità, il cibo industriale ha dato una forte spinta alla nascita di luoghi che forse potremmo definire trans-culturali, come le paninerie, i ritrovi McDonald’s, in cui le differenze fra popoli si attenuano, favorendo indubbiamente una sorta di socializzazione.

Tuttavia, il prezzo di questo tipo di integrazione è altissimo se pensiamo all’epidemia di obesità e di diabete che ormai preoccupa anche i paesi in via di sviluppo e che la scienza lega strettamente all’eccessivo consumo di alimenti ipercalorici, scadenti e poco nutrienti.

I sociologi, pertanto, stanno ancora studiando le dinamiche di ciò che il cibo, in tempo di pace e di guerra, in terre vicine e lontane, in epoche di immani cambiamenti e intense migrazioni, può determinare. A noi, in attesa di un qualche illuminante saggio da leggere, non resta che prendere atto della sua potenza e continuare a trattarlo con equilibrio e, soprattutto, col dovuto rispetto.

 

Da La Scuola di Ancel

Ti racconto la terraCol mio lavoro ti racconto la terra…

A quanti mi chiedono cosa fa un biologo nutrizionista rispondo con orgoglio che si occupa di alimentazione, di salute e di cultura del cibo. Ogni piano alimentare e ogni consiglio nutrizionale che passa dalle mie mani a quelle di chi si rivolge a me contiene, oltre a consigli alimentari e comportamentali, racconti che spero restino dentro e lascino traccia. Sono i racconti sul cibo che mangiamo e che ci rende ciò che siamo. Le storie della sua produzione, della sua stagione migliore, dei luoghi da cui proviene, delle mani che lo hanno lavorato e della fatica che lo ha portato fino a noi.

In ogni piano alimentare, in fondo, racconto la terra. Ed è proprio questa convinzione e questo istinto che mi hanno condotto alla stesura del mio ultimo libro Ti racconto la terra.

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