Archivio mensile:maggio 2013

In punta di forchetta!

Un interessante studio americano sull’alimentazione preventiva (The China Study), recentemente tradotto in italiano, dimostra che la maggior parte delle patologie cardiovascolari, metaboliche e tumorali possono essere prevenute con uno stile alimentare sano.
Uno dei suoi autori, T. Colin Campbell, sostiene difatti che la causa delle malattie più comuni cui andiamo incontro sta “in punta di forchetta” e che, pertanto, è possibile gestirla e controllarla.
A pensarci bene, è una gran bella notizia! Significa, infatti, che con le nostre scelte alimentari siamo in grado di scegliere se stare bene o stare peggio.
In realtà, non è una novità. Il filosofo Feuerbach (1804-1872) asseriva :”Noi siamo quello che mangiamo”, indicando che il cibo che assumiamo influenza il nostro stato di salute fisica e mentale.
Ma molto tempo prima, Ippocrate scriveva “Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo.”, indicando una via naturale alla prevenzione e alla cura delle malattie.
Se siete appassionati di internet e provate a fare una ricerca con le parole chiave “alimentazione e patologie” rimarrete esterrefatti di fronte alla mole enorme di produzione scientifica disponibile. Se leggete quotidiani e periodici non vi sarà sfuggita l’attenzione, ormai diffusissima, alla relazione fra cibo e salute.
Direi, quindi, che non ci manca di certo l’informazione. Potremmo vivere in un mondo di persone in salute, lucide, dinamiche e fiduciose nel futuro.
Invece, paradossalmente, leggiamo numeri allarmanti sull’obesità, soprattutto quella infantile (un bambino italiano su tre ha un peso eccessivo), sul diabete di tipo due (in continuo aumento e ad insorgenza sempre più precoce), sull’osteoporosi (presente già negli adolescenti e nei giovani adulti). Qualcosa non funziona come dovrebbe, allora.
Il cammino dell’informazione che, una volta acquisita, deve trasformarsi in consapevolezza e guidare le nostre scelte alimentari è, in qualche modo, disturbato, deviato, contaminato da altre informazioni, altri condizionamenti, altra “cultura”. La punta della nostra forchetta, dunque, è disconnessa dall’informazione che abbiamo acquisito ed è pesantemente condizionata dalle informazioni fuorvianti degli spot pubblicitari, che, spesso travestiti da messaggi salutistici, fanno presa sui nostri sensi di colpa e sulla mancanza di tempo, per spingerci ad un consumo poco critico e poco consapevole.
Ma il cibo non è un oggetto tecnologico, né un elettrodomestico e neppure un capo di abbigliamento: il cibo è ciò che diverrà parte di noi. Una volta ingerito ed assorbito, esso si trasformerà in ossa, carne, sangue, ecc. Come si può, quindi, rinunciare al proprio istinto, al proprio senso critico e alla propria consapevolezza dovendo scegliere “cosa essere” e come vivere?
Pensiamoci, ogni volta che decidiamo cosa infilzare alla nostra forchetta!

(Pubblicato su Dimensione Agricoltura di maggio 2013)

Voce del verbo seminare

Ci sono gesti che restano in mente e mettono radici. Uno di questi è l’apertura del braccio che semina a spaglio il grano. L’immagine del contadino con la pioggia di sementi intorno mi accompagna da sempre, rassicurante, sebbene oggi un po’ surreale.
La semina è un gesto antico che serba dentro l’agire un significato e una simbologia assolutamente immortali. Il grembo della terra accoglie il seme che darà i suoi frutti, dopo una crescita che vuole aria, terra, acqua, calore. Ricorda il ventre generoso delle madri.
La fertilità di un campo mi fa pensare al dono, all’offerta, al bisogno e alla sua soddisfazione. Ma l’essenziale generosità di una spiga di grano stride, nella mia mente, con l’attuale distorsione di questi concetti. Scambiamo continuamente i “desideri” per “bisogni“. Il bisogno, però, è limitato per definizione, dalla necessità precisa che lo esprime. Il desiderio, invece, no!

Continua a leggere su 5avi.net

Per pulirsi la bocca …

Non sono pisana. Sono approdata in questa bella città nel 1983, dal profondo sud, terra di cannoli, pomodori secchi e pasta di mandorle.

Al primo pranzo da amici, dopo arrosti e patate al forno, arrivò un tagliere con pecorini locali a pasta molle o consistente, freschi, stagionati, piccantini. Nonostante fossi decisamente sazia, mi ci tuffai a capo fitto e, dopo aver soddisfatto il mio palato da sorcio ghiotto, chiesi se si trattasse di una tradizione toscana o se fosse stata un’eccezione. I miei ospiti si guardarono interdetti e il più anziano, fra un boccone di pecorino e un altro di pane sciocco, rispose: “è pe’ pulissi la bocca, no?”. Allora, giuro, mi sembrò quasi una goliardata.

Continua a leggere su iltirreno.gelocal.it